Esame citologico liquido sinoviale

Esame del liquido sinoviale nel cane e nel gatto

Il liquido sinoviale è un liquido ad azione protettiva, lubrificante e nutritiva contenuto all’interno delle cavità articolari e prodotto dai sinoviociti, particolari cellule connettivali della membrana sinoviale. E’ composto principalmente da una parte liquida che deriva dall’ultrafiltrazione del plasma sanguigno in cui sono presenti diverse sostanze quali acido ialuronico, glicosaminoglicani, proteine, glucosio e ioni. Il liquido sinoviale in condizioni fisiologiche si presenta come un liquido incolore, sublimpido e viscoso (caratteristica dovuta proprio alla presenza dell’acido ialuronico) ed è generalmente presente in piccole quantità all’interno delle articolazioni (possono essere aspirati in un’articolazione in un cane sano fino ad un massimo di 1 ml e 0,25 ml in un cane di piccola taglia o in un gatto). Variazioni di quantità, viscosità ed aspetto macroscopico del liquido articolare possono indicare una patologia primaria limitata ad una o più articolazioni o una manifestazione di malattia sistemica. Pertanto la raccolta e l’analisi del liquido articolare forniscono informazioni preziose per la diagnosi, la prognosi ed il trattamento di patologie primarie o secondarie a carico dell’articolazione coinvolta.

RACCOLTA DEL CAMPIONE

Una volta effettuato un ago aspirato del liquido articolare (riguardo alle vie d’accesso e tecniche di prelievo delle articolazioni più comunemente campionate si rimanda alla letteratura), il campione va strisciato tal quale direttamente sul vetrino (stessa tecnica di allestimento degli strisci ematici) avendo cura di asciugare molto rapidamente i vetrini, possibilmente utilizzando un phon: la rapida asciugatura è fondamentale per ottenere un buon allestimento del campione. A causa infatti dell’elevata viscosità, il liquido articolare si asciuga lentamente, provocando la coartazione delle cellule presenti rendendole scarsamente valutabili. Nel caso si raccolga una quantità sufficiente di liquido sinoviale, questo deve essere posto in una provetta contenente anticoagulante K3EDTA. Su questo campione sarà possibile effettuare la conta delle cellule nucleate totali e, se refrigerato, in provetta con K3EDTA la morfologia cellulare si conserva per circa 24 ore. Se si sospetta una possibile patogenesi settica, parte del campione deve essere lasciato in siringa o in caso di trasporto prolungato posto in idoneo terreno di trasporto. E’ molto importante che sul modulo di accompagnamento venga segnalato da chi ha effettuato il prelievo l’eventuale rischio (o certezza) di contaminazione ematica iatrogena: in questo caso il campione presenta striature di sangue oppure appare limpido all’inizio dell’aspirazione e diventa rossastro solo successivamente.

ANALISI DEL LIQUIDO SINOVIALE

Gli esami di laboratorio eseguibili sul campione dipendono principalmente dal volume di liquido raccolto e possono essere così schematicamente suddivisi:

  • Aspetto macroscopico del liquido sinoviale: volume, colore e torbidità, viscosità. Viene inoltre valutato il tixotropismo, ovvero la capacità di un fluido colloidale di variare la propria viscosità se sottoposto a sollecitazioni (basta agitare la provetta con K3EDTA);
  • Conta totale delle cellule nucleate: può essere manuale (con emocitometro) o automatizzata. Nel nostro laboratorio la conta cellulare viene effettuata con il citometro a flusso Sysmex dopo trattamento con Ialuronidasi per diminuirne la viscosità;
  • Esame citologico;
  • Eventuali esami aggiuntivi (es. esame colturale, PCR…) per l’identificazione di agenti patogeni.

LIQUIDO SINOVIALE NORMALE

Il liquido sinoviale normale è incolore/giallo chiaro, viscoso e di bassa cellularità. In caso di contaminazione ematica durante il prelievo può assumere colorazione rosata (un liquido sinoviale normalmente contiene pochissimi eritrociti, circa 1000/µL). La conta delle cellule nucleate varia da specie a specie ed a seconda dell’articolazione coinvolta, ma generalmente è inferiore a 1000/µL (nel cane viene considerato patologico un liquido sinoviale con cellule nucleate >3000/µL). Le cellule sono costituite per circa il 50-90% da cellule mononucleate (monociti, macrofagi e cellule di rivestimento sinoviale ma citologicamente non è possibile distinguerne l’origine), <20% di piccoli linfociti e <10% di granulociti neutrofili non degenerati. A causa dell’elevata viscosità, le cellule si dispongono allineate “in fila indiana” (nel caso di campioni di scarso volume ciò può però non verificarsi anche se la viscosità è normale). Sul fondo si osserva moderato/abbondante materiale proteinaceo granulare rosato. La concentrazione proteica solitamente è <2,5 g/dl, ma non vi sono molti studi in letteratura riguardo i valori di riferimento in articolazioni normali (Figura 1).

LIQUIDO SINOVIALE PATOLOGICO

In condizioni patologiche, si osservano generalmente un’alterazione del colore, un aumento di volume e di torbidità ed una minore viscosità del liquido sinoviale. La conta cellulare è spesso aumentata così come la concentrazione proteica ma talvolta possono non esserci alterazioni rilevanti di questi parametri. Il quadro citologico del liquido sinoviale è in genere aspecifico, fatta eccezione nei casi in cui si osservano agenti eziologici (amastigoti di Leishmania o morule di Anaplasma ad esempio) o quando è possibile osservare le LE cells, la cui identificazione in un contesto clinico e clinico patologico compatibili e unitamente ad altri criteri diagnostici supporta la diagnosi di Lupus Eritematoso Sistemico (Melendez Lazo et al 2013).

Pertanto, un liquido sinoviale patologico viene solitamente classificato in 3 principali categorie poco specifiche:

  • EMARTRO ACUTO
  • ARTROPATIA DEGENERATIVA (NON INFIAMMATORIA)
  • ARTROPATIA INFIAMMATORIA infettiva e non infettiva

Non tutti i liquidi rientrano perfettamente in questa classificazione e spesso (soprattutto nel caso di patologie croniche) i pattern possono essere misti e poco chiari. Per esempio, l’emartro stimola già in poche ore una risposta infiammatoria importante e può evolvere in un’artropatia degenerativa cronica se non adeguatamente trattato.

1) EMARTRO ACUTO

Le principali cause di emartro acuto sono le coagulopatie (specialmente da carenza di fattori della coagulazione come nell’emofilia A) e i gravi traumi acuti. Il liquido raccolto è di colore rossastro e la torbidità è aumentata in maniera direttamente proporzionale all’entità dell’emorragia presente, mentre la viscosità è inversamente proporzionale. La concentrazione proteica sarà invece maggiore così come la conta cellulare: le cellule nucleate presenti saranno leucociti di derivazione ematica. In presenza di un liquido di colore rossastro, la prima cosa da fare è quella di escludere una possibile contaminazione ematica durante il prelievo. Macroscopicamente il clinico può notare se il liquido raccolto è ematico già all’inizio dell’artrocentesi o se lo diventa in un secondo momento (segno di emorragia iatrogena). Citologicamente in un emartro non si osservano piastrine e sono ben evidenti reperti di eritrofagocitosi recente e non recente con macrofagi attivati contenenti eritrociti, emosiderina e più raramente ematoidina; in caso di emorragia iperacuta questi reperti possono non essere ancora presenti. Nel caso in cui la contaminazione ematica sia iatrogena (Figura 2) non si osserva eritrofagocitosi ed è possibile, anche se non sempre, osservare piastrine. Poiché anche in caso di contaminazione ematica iatrogena è possibile che l’eritrofagocitosi avvenga in vitro nelle ore successive al prelievo, si raccomanda di allestire subito gli strisci.

2) ARTROPATIA DEGENERATIVA (NON INFIAMMATORIA)

Un’artropatia degenerativa può essere dovuta a traumi (per lo più cronici) o a malattie degenerative acquisite o congenite delle articolazioni. Il liquido articolare spesso è di colore e torbidità normali e viscosità leggermente diminuita ma si osserva un aumento di volume (idroartrosi) ed un aumento della concentrazione proteica (generalmente <4 g/dl). Per quanto riguarda la conta cellulare, essa può essere normale o lievemente aumentata (solitamente comunque <5000 cellule/µL) con una marcata predominanza di voluminose cellule mononucleate attivate (macrofagi e sinoviociti) vacuolizzate, eventualmente in fagocitosi di detriti cellulari, talora bi/trinucleate, talvolta tendenti a una lassa coesività (Figura 3). I granulociti neutrofili solo raramente possono essere in percentuale lievemente maggiore rispetto alla normalità. In caso di danni gravi alla cartilagine articolare si possono osservare assai raramente osteoclasti e condrociti suggestivi di danno o erosione della cartilagine con esposizione dell’osso subcondrale.

Le neoplasie articolari primarie o metastatiche sono rare e assai raramente esfoliano cellule all’interno del liquido sinoviale (si tratta soprattutto di sarcomi), pertanto la presenza di cellule neoplastiche nel versamento articolare è un’evenienza piuttosto infrequente.

3) ARTROPATIA INFIAMMATORIA

Le cause di artropatia infiammatoria sono numerose e possono essere schematicamente suddivise in due gruppi: infettive e non infettive. In entrambi i casi si osserva un aumento di volume del liquido sinoviale e una diminuzione della viscosità direttamente proporzionale all’entità della flogosi. Il liquido articolare appare torbido, eventualmente rosato o brunastro (in presenza di emorragia). La conta cellulare e la concentrazione proteica sono solitamente aumentate in modo marcato (>5000 cellule/µL e >3 g/dL) con una marcata predominanza di granulociti neutrofili (>10%) ed un modico aumento di cellule mononucleate.

a) Artrite Infettiva

Le artriti infettive sono piuttosto comuni in cavalli, camelidi e bovini e più rare nel cane e nel gatto; in queste ultime due specie quando si sviluppano sono più frequentemente di origine batterica. Assai più rare sono le artriti protozoarie, virali o fungine.

In corso di flogosi batterica è più comune osservare granulociti neutrofili ben conservati e non degenerati, così come osservare fagocitosi batterica è un evento infrequente (circa 50% dei casi di artrite batterica) (Figura 4); la mancanza di questi aspetti diagnostici rende complessa la possibilità di differenziare flogosi neutrofiliche settiche da artriti immunomediate, anch’esse caratterizzate dalla presenza di una popolazione prevalente – unica di granulociti neutrofili ben conservati.

Batteri: i batteri solitamente causano una monoartrite come complicanza di ferite penetranti o interventi chirurgici, anche se il coinvolgimento di più articolazioni può verificarsi nel caso di diffusione ematogena, in corso di patologie ombelicali o endocarditi batteriche ad esempio. I microrganismi più comunemente coinvolti sono: Pasteurella, Salmonella, Corynebacterium, E. Coli, Stafilococchi, Streptococchi e Mycoplasma. In caso di sospetta artrite batterica deve essere richiesto un esame colturale, in genere soltanto per batteri aerobi. Il liquido sinoviale dell’articolazione coinvolta può essere conservato nella siringa se il campione può arrivare al laboratorio entro poche ore, oppure deve essere raccolto in idoneo terreno di trasporto. Sfortunatamente la sensibilità dell’esame colturale per questo tipo di campione è piuttosto bassa e frequentemente si ottengono falsi negativi (in alcuni lavori nel cane nel 20-50% dei casi). Alcuni Autori hanno suggerito di utilizzare tecniche di arricchimento per aumentare la possibilità di isolare i batteri nel liquido sinoviale, ma mentre in alcuni articoli è stata dimostrata una sensibilità superiore di questa tecnica, in altri questa non si è rivelata migliore delle classiche tecniche di semina. Le ipotesi suggerite per spiegare la scarsa sensibilità nell’isolare batteri in corso di artrite settica sono: terapie antibiotiche in atto, basso numero di batteri, elevata presenza di neutrofili nel campione (Scharf et al 2015; Montgomery et al 1989).

Malattie da vettore: molto raramente è stata riportata la presenza di morule di Anaplasma phagocytophilum nei granulociti neutrofili (carica molto bassa, di solito <5% delle cellule). Anche Borrelia Burgdorferi (Malattia di Lyme) può causare mono – poliartriti di natura migrante (per infezione articolare diretta o deposizione di immuno – complessi). Nel cane sono state anche associate poliartriti a infezioni da Ehrlichia, sebbene in un recente studio in soggetti infettati sperimentalmente con Ehrlichia canis non sono state rilevate alterazioni citologiche del liquido sinoviale riferibili ad artrite. Pertanto, un’infezione da Ehrlichia canis dovrebbe essere considerata una causa piuttosto rara di artrite nei cani (Theodoru K et al., 2015). In cani affetti da Leishmaniosi  possono infine essere riscontrati amastigoti di Leishmania all’interno dei macrofagi nel liquido articolare.

Tutti i cani con poliartrite che soggiornano o hanno soggiornato in aree endemiche andrebbero testati per Anaplasma p., Ehrlichia c. (sebbene non sia certo il suo ruolo causale in corso di poliartrite), Borrelia b. e Leishmania. Poiché è possibile che i cani con poliartrite da Leishmania abbiano solo la forma localizzata e non quella sistemica, ricordiamo che è evento abbastanza frequente (57% dei casi) che tali pazienti abbiano titoli anticorpali negativi; l’unico modo per attribuire a Leishmania la poliartrite è quindi osservare gli amastigoti nell’esame citologico oppure effettuarne ricerca in PCR sul liquido sinoviale (possibili falsi negativi) (Sbrana S et al., 2014).

Virus: il Calicivirus nei gattini di età compresa tra 6 e 12 settimane può produrre un’artrite costituita da liquido limpido con un moderato aumento del numero di macrofagi. Il virus della leucemia felina (FeLV) può indurre una poliartrite erosiva.

Funghi: le artriti micotiche sono estremamente rare sia nel cane che nel gatto e possono svilupparti sia per estensione di una osteomielite sia per via ematogena.

b) Artrite non infettiva

La causa più comune di artrite infiammatoria non infettiva nel cane è quella immunomediata, mentre nella specie felina sono assai più comuni le forme infettive e molto rare quelle immunomediate. Dal punto di vista clinico e clinico – patologico si tratta di un gruppo eterogeneo di patologie che generalmente coinvolgono più articolazioni e determinano zoppie migranti.

Cane: In uno studio su 39 cani con poliartrite immunomediata (Clements DN et al., 2004), la conta delle cellule nucleate variava da 3700 a 170000/µl, con il 20-98% di granulociti neutrofili. Le cause includono Lupus Eritematoso Sistemico (LES), artrite reumatoide, poliartrite erosiva, vasculite (es. Febbre dello Sharpei), poliartrite giovanile degli Akita Inu. Alcune di queste poliartropatie sono associate a neoplasie sottostanti o patologie gastrointestinali, reazioni da farmaci (es. i farmaci a base di zolfo possono provocare una poliartrite da ipersensibilità di tipo ritardato in alcune razze predisposte come i Dobermann). Il test degli anticorpi antinucleari ed il test del fattore reumatoide possono essere utili per diagnosticare una forma immunomediata.

Gatto: Si distinguono principalmente due forme di poliartrite di origine immunomediata: erosiva e non erosiva. La forma erosiva si verifica esclusivamente nei gatti maschi interi o castrati e sono state descritte due forme cliniche dell’affezione: il tipo proliferativo periostale, che presenta esordio e decorso acuto e il tipo deformante con esordio insidioso e decorso progressivo. La poliartrite cronica progressiva può essere associata al Virus della Leucemia Felina (FeLV) o all’infezione sostenuta dal virus sinciziale felino. Le cause della poliartrite non erosiva (che generalmente colpisce le articolazioni distali) possono essere idiopatiche o secondarie a LES, farmaci (trimetoprim – sulfonamidici), malattie infiammatorie (ad es. patologie gastrointestinali) e neoplasie.

Le alterazioni del liquido sinoviale in tutte queste patologie sono abbastanza sovrapponibili ed indistinguibili tra loro; citologicamente si osserva sempre un aumento dei granulociti neutrofili non degenerati che prevalgono nettamente (Figura 5) e talvolta un aumento del numero di cellule mononucleari. L’unica artropatia infiammatoria non infettiva che può essere distinta citologicamente è quella da Lupus Eritematoso Sistemico (LES): raramente in alcuni cani affetti da questa patologia possono essere presenti nel liquido sinoviale le cellule LE (granulociti neutrofili che contengono un residuo di acido nucleico di grosse dimensioni e di colore viola omogeneo che sposta il nucleo dei neutrofili a lato delle cellule) (Melendez Lazo et al 2013). Sfortunatamente mentre la presenza di queste cellule consente di diagnosticare il LES, non trovarle non consente di escluderlo (bassa sensibilità). I ragociti sono granulociti neutrofili che contengono numerosi granuli violacei la cui composizione è di origine dubbia (si ipotizza che le inclusioni possano derivare da detriti nucleari o deposizione di immuno-complessi e istoni o particelle di DNA); tali cellule possono essere osservate in corso sia di LES che di altre patologie immunomediate (Figura 6 e Figura 7).

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM Dip. ECVCP – Dr.ssa Marta Attini, DVM

 

BIBLIOGRAFIA

  • https://eclinpath.com/cytology/synovial-fluid/
  • https://www.vetjournal.it/images/archive/pdf_riviste/1440.pdf
  • Clements DN et al. Type I immune-mediated polyarthritis in dogs: 39 cases (1997–2002). Journal of the American Veterinary Medical Association.224: 1323-1327, 2004
  • Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH, DeNicola DB. Diagnostic cytology and hematology of the dog and cat. 3°edizione Mosby Elsevier, St.Louis, Missouri, 2008
  • MacWilliams PS et al. Laboratory evaluation and interpretation of synovial fluid. Vet Clin Small Anim 33: 153-178, 2003
  • Martinez CR, Santangelo KS. Preanalytical considerations for joint fluid evaluation. Vet Clin North Am Small Anim Pract. 2017 Jan;47(1):111-122.
  • Melendez Lazo et al. Probable systemic lupus erythematosus (SLE) in a dog with polyarthritis. 2013 ECVCP Mistery Case session
  • V F Scharf et al. Retrospective evaluation of the efficacy of isolating bacteria from synovial fluid in dogs with suspected septic arthritis Aust Vet J. 2015 Jun;93(6):200-3.
  • R D Montgomery et al. Comparison of aerobic culturette, synovial membrane biopsy, and blood culture medium in detection of canine bacterial arthritis Vet Surg Jul-Aug 1989;18(4):300-3
  • Lemetayer and Taylor. Inflammatory joint disease in cats: Diagnostic approach and treatment. Journal of Feline Medicine and Surgery 2014 16: 547
  • Raskin RE, Meyer DJ. Canine and feline cytology – A Color Atlas and Interpretation Guide. 2°edizione Elsevier Saunders, St.Louis, Missouri, 2010
  • Sbrana S et al. Retrospective study of 14 cases of canine arthritis secondary to Leishmania infection. J Small Anim Pract 55(6): 309-313, 2014
  • Theodoru K et al. Synovial fluid cytology in experimental acute canine monocytic ehrlichiosis (Ehrlichia canis). Veterinary Microbiology 177: 224-227, 2015


Trombocitosi nel cane e nel gatto

Con trombocitosi si intende un numero di piastrine per microlitro superiore all’intervallo di riferimento. Questo dato deve essere confermato dalla valutazione microscopica dello striscio ematico: ad un aumento del numero di piastrine contato dallo strumento corrisponde in genere una stima piastrinica aumentata con un numero di piastrine per campo ad immersione 100x superiore a circa 30 (nel cane) e circa 48 (nel gatto) (Intervalli di riferimento secondo Stockham S, 2002). Nel caso in cui l’aumento del numero di piastrine sia lieve – moderato, la stima piastrinica potrebbe anche risultare normale. La conferma microscopica del dato strumentale è necessaria poiché le contaglobuli soprattutto a impedenza (più raramente laser) possono contare erroneamente come piastrine frammenti di eritrociti o di citoplasma di cellule nucleate circolanti, portando a una falsa sovrastima.  La trombocitosi può essere primaria o secondaria:

Trombocitosi primaria

Si tratta della trombocitemia essenziale (leucemia cronica delle piastrine), rara malattia mieloproliferativa che può essere diagnosticata soltanto escludendo tutte le cause secondarie di trombocitosi; l’esame citologico del midollo osseo non è risolutivo poiché rivela un’iperplasia megacariocitica, riscontrabile anche in altre condizioni neoplastiche oppure infiammatorie.

Trombocitosi secondaria

Le trombocitosi reattive sono le più comuni e possono essere secondarie a un ampio ventaglio di condizioni patologiche: neoplasie, infiammazioni, anemie immunomediate, traumi e anemia da carenza di ferro. Questi stati patologici causano il rilascio di citochine infiammatorie, come ad esempio di interleukina- 6, che aumentano la sintesi a livello epatico di una glicoproteina, la trombopoietina, che ha il compito di stimolare la proliferazione dei megacariociti e la successiva produzione di piastrine.  Anche l’eritropoietina sembrerebbe avere un parziale effetto di megacariopoiesi per cui nei casi di anemia con aumentata produzione di eritropoietina è possibile che anche la linea megacariocitica risponda diventando iperplastica. Il lavoro retrospettivo di Woolcock et al. (2017) su 715 cani con trombocitosi ha dimostrato che le cause più frequenti in questa specie sono neoplasie (soprattutto carcinomi e linfomi), stati infiammatori (patologie immunomediate, gastrointestinali ed epatobiliari) ed endocrinopatie (iperadrenocorticismo, diabete mellito e ipotiroidismo). Un lavoro meno recente su 165 cani di Neel et al. (2012) conferma le neoplasie come causa più frequente di trombocitosi (linfoma e mastocitoma sono le neoplasie più rappresentate), seguite da flogosi (soprattutto pancreatite, epatite cronica e IBD) e malattie endocrine (diabete mellito, iperadrenocorticismo e ipotiroidismo). Nel gatto le cause reattive più comuni sono le malattie infiammatorie ed infettive, soprattutto a carico dell’apparato gastroenterico.

Altre cause di trombocitosi secondaria meno frequenti possono essere:

  • T. indotta da farmaco: alcuni farmaci chemioterapici come la doxorubricina possono dare effetto “rebound” del midollo osseo in seguito a una mielosoppressione, mentre la vincristina (utilizzata anche per il trattamento della trombocitopenia immunomediata) stimola direttamente la produzione e il rilascio di piastrine. Non è invece noto il meccanismo fisiopatologico secondario alla somministrazione di glucocorticoidi.
  • T. post splenectomia: la milza contiene circa 1/3 della massa piastrinica e ha inoltre il compito di distruggere le piastrine “invecchiate” o danneggiate. In seguito a splenectomia è frequente riscontrare trombocitosi transitoria o persistente (anche della durata di diversi mesi) perché le piastrine perdono il loro sito di stoccaggio naturale e perché hanno una emivita maggiore per la mancata emocateresi.
  • T. post trombocitopenia: dopo episodi di trombocitopenia è possibile osservare trombocitosi da “rebound” secondaria all’iperplasia megacariocitica che avviene in risposta all’aumento di tromboietina.

Trombocitosi e ipercoagulabilità

In letteratura veterinaria non è stata dimostrata un’associazione tra trombocitosi e fenomeni tromboembolici, sebbene sia stata sospettata. Un lavoro recente di Phipps et al. (2020) ha evidenziato che in cani splenectomizzati si può sviluppare uno stato di ipercoagulabilità (alterazioni del tromboelastogramma associate a marcata trombocitosi) nelle due settimane post-operatorie, ipotizzando un maggior rischio in questi soggetti di trombosi portali o polmonari, sebbene nessuno dei cani inclusi nello studio abbia sviluppato trombi. Perciò, non è chiaro se questa associazione (ipercoagulabilità – trombocitosi) esiti realmente in fenomeni tromboembolici.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM Dipl. ECVCP - Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM

 

Bibliografia:

  • Woolcock AD et al. Thrombocytosis in 715 Dogs (2011–2015). J Vet Intern Med 2017
  • Neel A et al. Thrombocytosis: a retrospective study of 165 dogs Vet Clin Pathol. 2012 Jun;41(2):216-22.
  • Rizzo F et al. Thrombocytosis in cats: a retrospective study of 51 cases (2000-2005). Journal of Feline Medicine and Surgery (2007) 9, 319-325
  • Phipps E et al. Postoperative thrombocytosis and thromboelastographic evidence of hypercoagulability in dogs undergoing splenectomy for splenic masses J Am Vet Med Assoc 2020 Jan 1;256(1):85-92.
  • Veterinary Hematology, a Diagnostic Guide and Color Atlas. First Edition Elsevier, 2012
  • Stockham SL. Fundamentals of Veterinary Clinical Pathology, I ed., 2002
  • https://eclinpath.com/hemostasis/disorders/platelet-numbers/

 


L'amiloidosi nel cane e nel gatto

Con il termine AMILOIDOSI si intende un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate dalla deposizione extracellulare di fibrille di circa 10 nm di diametro in vari tessuti; esse sono formate dalla polimerizzazione di subunità proteiche con una specifica conformazione a β foglietti. Questa particolare struttura conferisce caratteristiche peculiari ottiche e tintoriali ai suoi depositi (vedi oltre) e ne determina l’insolubilità e la resistenza alla proteolisi in vivo.

Dal punto di vista ultrastrutturale, queste fibrille hanno composizione chimica variabile in quanto il peptide amiloidogenico (costituente della parte più esterna, pari al 95%) deriva dalla deposizione di una proteina differente a seconda della patologia in atto. La deposizione può avvenire per due meccanismi: per una mutazione genetica della proteina o per l'azione di una proteasi che ne deforma la struttura. Internamente, l'amiloide è invece composta da un nucleo di componente AP (amyloid P component), glicoproteina globulare ed aggregati di condroitinsolfato ed eparansolfato.

Le amiloidosi sono classificate secondo due principi: distribuzione dei depositi e proteina d’origine coinvolta.

1) DISTRIBUZIONE DEI DEPOSITI

Si tratta di una classificazione   di tipo clinico che distingue due forme: localizzata e sistemica. La forma localizzata colpisce un solo organo ed è piuttosto rara negli animali domestici. Ne sono un esempio l’amiloidosi delle isole pancreatiche del gatto (le cellule β del pancreas producono in quantità eccessiva amilina che si deposita tra di esse danneggiandole fino a causare un diabete principalmente di tipo II) e il plasmocitoma extramidollare cutaneo o gastroenterico (producono sostanza amiloide associata alle globuline).

La forma sistemica è invece la più frequente e coinvolge più organi; comprende la forma reattiva, la forma di carattere ereditario-familiare e quella associata a discrasia delle immunoglobuline. Nel cane e nel gatto la deposizione di sostanza amiloide avviene principalmente nel rene e nel fegato, ma possono anche essere coinvolti altri tessuti (cuore, milza, surreni, linfonodi, pancreas e tratto gastroenterico, sistema nervoso, vasi sanguigni). La deposizione può essere talmente grave da determinare la rottura dell’organo coinvolto.

2) BIOCHIMICA DELLA PROTEINA COINVOLTA

Esistono diversi tipi di proteine (circa 20-25) che possono determinare l’amiloidosi, ma le principali sono essenzialmente due: AA (la più comune) e AL.

La forma AA (AA amiloide) è un frammento derivante dalla degradazione della proteina di fase acuta positiva SAA (siero amiloide A) prodotta principalmente dal fegato. In caso di infezione/infiammazione cronica (+++), neoplasie e traumi, questa proteina è prodotta in quantità eccessive (può aumentare di centinaia di volte la sua concentrazione normale sierica) e viene attaccata dai macrofagi tramite gli enzimi lisosomiali nel tentativo di degradarla.  In alcuni casi quello che però si ottiene è un’alterazione parziale della proteina SAA che diventa fibrillare, non più idrosolubile e che quindi si deposita nei tessuti in forma AA; questo è ciò che avviene nelle forme reattive e di carattere ereditario – familiare.

La forma AL (AL amiloide) invece è meno comune e deriva dalle catene leggere delle Immunoglobuline prodotte da plasmacellule neoplastiche in corso di mieloma multiplo o di linfoma B secernente immunoglobuline (più raro).

Le principali forme cliniche riportate in letteratura veterinaria sono:

  • amiloidosi di carattere ereditario – familiare reattiva, segnalata nei cani di razza Shar-Pei, Beagle e Fox Hound e nei gatti di razza Abissino, Siamese ed Orientale a pelo corto (forma sistemica e deposizione di AA)
  • amiloidosi reattiva secondaria (forma sistemica e deposizione di AA)
  • amiloidosi da discrasia delle plasmacellule (forma sistemica e deposizione di AL).

In letteratura non sono segnalate particolari predisposizioni di sesso ed età dei pazienti che possono sviluppare l’amiloidosi (nella forma di carattere ereditario-familiare può presentarsi più frequentemente in giovane età). I depositi di amiloide si riscontrano meno frequentemente nel fegato e più frequentemente nel rene, con una differenza sostanziale tra cane e gatto, ovvero nel cane è più spesso coinvolta la porzione glomerulare, mentre nel gatto quella tubulo-interstiziale. Vi sono però alcune eccezioni: nei cani di razza Shar-Pei la deposizione di sostanza amiloide è tubulo-interstiziale, mentre nei gatti di razza Abissino può essere anche glomerulare. Inoltre, nei gatti di razza Siamese ed Orientale a pelo corto la deposizione di sostanza amiloide è primariamente epatica.

La sintomatologia clinica dell’amiloidosi non è specifica ma variabile per il suo carattere prevalentemente sistemico e dipende dall'estensione del danno funzionale degli organi e dei tessuti colpiti. È bene ricordare che molto spesso il riscontro di deposizioni amiloidi locali o sistemiche (soprattutto di modica entità) è un reperto “accidentale” clinicamente non significativo riscontrato durante altre indagini diagnostiche.

Anche dal punto di vista clinico – patologico le alterazioni di laboratorio possono non essere rilevanti e/o specifiche a seconda dell’entità della deposizione, del tipo di proteina amiloide e dell’organo coinvolto.

In sintesi, i quadri clinico patologici più comuni sono:

  • deposizione renale: aumento dei valori sierici di azotemia e creatinina in genere tardivi, proteinuria anche molto marcata ma solo in caso di deposizione glomerulare, possibile ipercolesterolemia (sindrome nefrosica);
  • deposizione epatica: alterazioni riconducibili ad insufficienza epatica (ipoprotidemia con ipoalbuminemia, diminuzione della concentrazione sierica dell’urea, allungamento di PT, APTT, diminuzione del fibrinogeno). Generalmente non c’è aumento delle transaminasi;
  • nel caso di amiloidosi di tipo AL: possibile picco monoclonale in β – γ nell’elettroforesi sieroproteica e/o proteinuria di Bence Jones nell’elettroforesi delle proteine urinarie SDS-AGE.

La misurazione della SAA sfortunatamente non offre indicazioni utili poiché non è necessariamente elevata in corso di amiloidosi ed essendo semplicemente una proteina di fase acuta positiva aumenta in modo aspecifico in corso di qualsiasi flogosi.  

DIAGNOSI

La diagnosi di amiloidosi è citologica e soprattutto istologica (gold standard). La sostanza amiloide si colora di rosa intenso (talvolta arancione) con colorazioni citologiche di tipo Romanowsky e con ematossilina – eosina nei preparati istologici ed appare come un denso materiale amorfo extracellulare, talvolta chiaramente fibrillare che si dispone tra le cellule del parenchima coinvolto. La colorazione Rosso Congo è la colorazione più comunemente usata per l'identificazione dell'amiloide in citologia ed istologia. Con questa metodica, l'amiloide si colora di arancione – rosso sotto microscopia ottica e appare come un materiale birifrangente verde mela sotto luce polarizzata. Per tipizzare le principali due forme di proteina amiloide (AA e AL) può essere utilizzato il permanganato di potassio con soluzione al 5%: l’AA amiloide si decolora e perde l’affinità con il Rosso Congo e la proprietà di birifrangenza, mentre AL amiloide mantiene le sue caratteristiche tintoriali.

Infine, l'immunoistochimica può essere utilizzata non solo per identificare i depositi di amiloide ma anche per tipizzare i componenti specifici dei depositi: solitamente si utilizzano anticorpi per le catene leggere dell’AL o per dimostrare la deposizione AA nelle forme familiari.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM Dipl. ECVCP – Dr.ssa Marta Attini, DVM

 

Bibliografia:

  • Asproni P et al. Amyloidosis in association with spontaneous feline immunodeficiency virus infection. Journal of Feline Medicine and Surgery 15(4): 300–306, 2012
  • Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH, DeNicola DB. Diagnostic cytology and hematology of the dog and cat. 3°edizione Mosby Elsevier, St.Louis, Missouri, 2008
  • Moges Woldemeskel. A Concise Review of Amyloidosis in Animals. Vet Med Int volum 2012: DOI:10.1155/2012/427296, 2012
  • Nelson RW, Couto CG et al. Medicina interna del cane e del gatto. 4° edizione Elsevier Srl, 2010
  • Raskin RE, Meyer DJ. Canine and feline cytology – A Color Atlas and Interpretation Guide. 2°edizione Elsevier Saunders, St.Louis, Missouri, 2010

L’anomalia di Pelger-Huët

L’anomalia di Pelger-Huët è una rara condizione ereditaria caratterizzata da una mancata maturazione nucleare con conseguente iposegmentazione dei granulociti neutrofili, eosinofili e basofili; anche i monociti possono apparire con nucleo rotondeggiante, privi di indentature. I nuclei dei granulociti presentano rari o assenti restringimenti apparendo di forma tondeggiante, reniforme o bilobata, con cromatina matura grossolana – compatta e con citoplasma chiaro.

Questa anomalia viene segnalata principalmente nella specie canina: nel cane è stata descritta in Pastore Australiano (il più comune, stimata un’incidenza del 9.8%), Samoyedo, Basenji, Cocker Spaniel, Border collie, Foxhound, Australian Cattle Dog, Boston terrier, Pastore Tedesco, ed infine anche in due meticci (madre e figlio). E’ stata riportata anche nel gatto, nel cavallo (due case reports di cavalli Arabi apparentemente sani), nel coniglio e nell’uomo.

Si tratta di un’anomalia ereditaria autosomica dominante, fatta eccezione che per il Pastore Australiano in cui è riportata una penetranza incompleta; nell’uomo l’anomalia è legata al gene che codifica il recettore lamin B (LBR), ovvero una proteina interna della membrana nucleare coinvolta nel processo di segmentazione dei granulociti.

I soggetti che presentano questa anomalia in eterozigosi sono asintomatici poiché i neutrofili hanno una funzionalità normale (non sono quindi predisposti a sviluppare infezioni) e presentano un numero normale di leucociti; la diagnosi in genere è un reperto di laboratorio occasionale fatta “per caso” su prelievi effettuati per qualsiasi ragione. In caso di omozigosi (descritta nei conigli, nei gattini, nei topi e nell’uomo) questa anomalia si associa ad alterazioni scheletriche e morte perinatale in seguito ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni a causa di una probabile ipofunzionalità dei leucociti.

Con il termine di pseudo Pelger-Huët invece si intende una condizione in cui tutti (o quasi) i granulociti sono iposegmentati secondariamente a patologie acquisite quali una sindrome mielodisplastica, un gravissimo left shift degenerativo o in seguito a somministrazione di farmaci che alterino la granulopoiesi.

Come possiamo distinguere le due condizioni quando in uno striscio di sangue periferico si osserva iposegmentazione nella totalità o quasi dei granulociti?

Come sempre è indispensabile partire dal segnalamento: si tratta di una razza in cui è stata riportata la Pelger-Huët? È poi la volta di anamnesi (trattamenti farmacologici?) ed esame clinico; quest’ultimo deve escludere la presenza di focolai settici/infiammatori gravi che possano giustificare la presenza di un left shift degenerativo grave al punto che non sia possibile osservare granulociti neutrofili segmentati ma soltanto bandati. Nel caso in cui sia presente una grave flogosi all’esame dello striscio è molto probabile osservare oltre a immaturità dei neutrofili (con eventuale presenza di metamielociti) anche segni di tossicità (basofilia citoplasmatica, corpi di Dohle, forme ad anello); anche altri risultati clinico-patologici possono indicare la presenza di flogosi (aumento della proteina C reattiva nel cane e dell’amiloide sierica nel gatto, aumento della frazione elettroforetica alfa-2).

Non esistendo ad oggi test genetici in grado di confermare la presenza dell’anomalia, è possibile diagnosticare con ragionevole confidenza la Pelger-Huët nel caso in cui sia possibile identificare iposegmentazione dei granulociti (eosinofili compresi!) in assenza di tossicità, in un paziente clinicamente sano in prelievi ripetuti nel tempo, soprattutto nel caso in cui si tratti di una specie-razza nelle quali sia già stato segnalato.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM dipl. ECVCP – Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM

 

Bibliografia:

  • Schalm’s Veterinary Hematology. Weiss DJ, Wardrop KJ. Sixth edition. 2010
  • Veterinary Hematology, a Diagnostic Guide and Color Atlas. Harvey JV. First Edition Elsevier, 2012
  • Congenital Pelger-Huët anomaly in a horse. Gill AF et al. Vet Clin Pathol. 2006;35:460-462
  • Pelger-Huët anomaly in an Arabian horse. Grondin TM et al. Vet Clin Pathol. 2007;36:306-310
  • Pelger-Huët anomaly in cats. Latimer KS et al. Vet Pathol. 1985;22:370–374
  • Nuclear segmentation, ultrastructure and cytochemistry of blood cells from dogs with Pelger-Huët anomaly. Latimer KS et al. J Comp Pathol. 1987;97:61–72
  • Pelger- Huët anomaly in Australian shepherds: 87 cases (1991–1997). Latiman et al. Comp Haematol Int. 2000; 10:9–13
  • Pelger-Huët anomaly in two related mixed-breed dogs. Vale et al. Journal of Veterinary Diagnostic Investigation 23(4) 863–865
  • http://eclinpath.com/hematology/morphologic-features/white-blood-cells/other-wbc-changes/


L'ipostenuria nel cane

COME COMPORTARCI QUANDO TROVIAMO UN PESO SPECIFICO IPOSTENURICO (USG INFERIORE A 1.007)

Quando si trova un peso specifico delle urine (USG) molto diminuito (USG < 1007), le urine si definiscono “ipostenuriche”. L'ipostenuria indica che il rene può diluire l'urina ma non è in grado di concentrarla. Ciò può accadere per tre principali meccanismi:

  • DIABETE INSIPIDO CENTRALE per mancanza dell’ormone antidiuretico (ADH o vasopressina); questo viene prodotto dall’ipotalamo e stoccato nell’ipofisi posteriore, agisce sulle aquaporine che aprendosi consentono all’acqua di venire assorbita passivamente secondo il gradiente stabilito tra i tubuli e la midollare ipertonica;
  • DIABETE NEFROGENICO in cui i tubuli contorti distali e i dotti collettori non sono in grado di rispondere all’ADH a causa di una patologia tubulare oppure per la presenza di sostanze inibitrici dell’ADH;
  • La midollare del rene ha perso la sua ipertonicità; questa è data principalmente dalla possibilità di riassorbire a questo livello urea (promosso dall’ADH) e sodio. Qualsiasi patologia che diminuisca la concentrazione sierica di urea (es: l’insufficienza epatica) o di sodio (iponatremia prolungata ad esempio per una diarrea profusa) o che impedisca a questi soluti di venire riassorbiti (es: diminuito trasporto di sodio e cloro per patologie tubulari, dilavamento della midollare per diuresi osmotica o aumentato flusso ematico a livello dei vasa recta) porta a un’incapacità da parte del rene di concentrare le urine.

Le patologie che comportano uno di questi meccanismi sono molteplici:

  • Diabete insipido centrale: sindrome poliurica causata da lesioni a carico dell’ipofisi o dell’ipotalamo che porta a una riduzione/ assenza della produzione e stoccaggio di ADH; può essere congenita (case reports che ipotizzano una forma familiare), acquisita (conseguente a trauma cranico, neoplasie del sistema nervoso centrale, cisti ipofisarie…) e idiopatica (causa più comune).
  • Diabete insipido nefrogenico: gruppo di malattie renali ed extrarenali in cui vi è una mancata risposta all'ADH da parte dei tubuli renali, ovvero:
    • Diabete nefrogenico congenito: condizione rara ed irreversibile, segnalati alcuni case reports.
    • Ipercalcemia: causa una riduzione dell’attività delle aquaporine, oltre che a una mancanza di riassorbimento di acqua a livello di nefrone distale conseguente alla riduzione dell’assorbimento di sodio e cloro (riduzione del gradiente osmotico); in corso di ipercalcemia cronica, si può inoltre sviluppare mineralizzazione del tubulo.
    • Endotossiemia: le tossine prodotte da alcuni batteri (in particolare dall’Escherichia coli) possono competere con i siti di legame dell’ADH a livello tubulare. La condizione patologica in cui è più frequente riscontrare poliuria – polidipsia per questo meccanismo è la piometra; altre condizioni meno frequenti sono ascessi prostatici, pielonefriti e setticemia. Questa condizione è reversibile una volta risolto il focolaio settico.
    • Ipokaliemia: la riduzione di potassio porta a una mancata produzione di AMP ciclico che serve all’espressione dei canali delle aquaporine oltre che a una minore responsività del tubulo allo stimolo dell’ADH. In genere l’ipokalemia è secondaria a patologie che già si associano a PU/PD quali ad esempio glicosuria, nefropatie sodio-disperdenti, pielonefrite, nefrite tubulointerstiziale, nefropatia ipercalcemica, ketonuria etc.
    • Iperadrenocorticismo: la produzione di glucocorticoidi può inibire la produzione di ADH (diretta azione a livello ipotalamico – neuroipofisi) e la ricettività del tubulo allo stesso.
  • Polidipsia psicogena: eccessivo consumo di acqua non giustificato da una perdita di fluidi con conseguente poliuria compensatoria per over-idratazione. Può essere indotta da patologie concomitanti con effetto sullo status mentale (es: encefalopatia epatica) oppure da problemi comportamentali.
  • Diminuzione della tonicità della midollare o “washout midollare
    • Insufficienza epatica: l’urea, sintetizzata a livello epatico, rappresenta per il 50% il soluto dell'interstizio che serve a dare ipertonicità alla midollare, consentendo quindi al rene di concentrare le urine. In caso di insufficienza epatica, la riduzione della produzione di urea comporta quindi una ridotta concentrazione a livello di interstizio (riduzione del gradiente osmotico).
    • Iponatriemia ed ipocloremia prolungate: oltre a ridurre il gradiente di concentrazione a livello di interstizio renale causando l’incapacità da parte del rene di richiamare acqua (stesso meccanismo dell’urea), causano anche una riduzione dell’osmolalità che a sua volta inibisce la produzione di ADH.
    • Trattamenti con diuretici d’ansa.

L’iter diagnostico quando si affronta la problematica di un cane con poliuria – polidipsia e con urine ipostenuriche deve essere organizzato e metodico:

  1. Anamnesi: iniziare con una raccolta anamnestica dettagliata che confermi la poliuria e polidpsia marcate (ad esempio presenza di urinazione inappropriata notturna, perdita di urine durante il sonno, consumo di eccessive quantità di acqua).
  2. Conferma della presenza di ipostenuria: è molto importante considerare le naturali fluttuazioni circadiane e capire intorno a quale valore medio si aggira il peso specifico di un paziente, proprio perché le diagnosi differenziali dell’ipostenuria non sono le stesse dell’isostenuria. È consigliabile pertanto misurare l’USG su prelievi seriali delle urine effettuati in giorni diversi e a orari diversi prima di confermare l’ipostenuria; le prime urine del mattino in genere riflettono meglio la capacità di concentrare del rene.
  3. Esami clinico-patologici: per avere un inquadramento completo del paziente è necessario partire dagli esami emato - biochimici completi (esame emocromocitometrico e pannello biochimico esteso comprensivo di elettroliti) ed esame delle urine con PU/CU. Nel dettaglio:
    • Esame emocromocitometrico: utile per valutare i leucociti per sospettare la presenza di infezioni (es: piometra).
    • Pannello biochimico: valutazione dei parametri epatici per l’insufficienza epatica (urea, albumine, colesterolo, glicemia, acidi biliari pre e post prandiali). Si ricorda che per escludere con certezza l’ipercalcemia è necessario effettuare un emogasanalisi, anche nel caso in cui il valore della calcemia totale risultasse negli intervalli di riferimento.
    • Esame delle urine con PU/CU, esame colturale: è importante valutare il sedimento urinario in caso vi fossero segni di infezione e flogosi (piuria, ematuria, batteriuria); non è infrequente riscontrare poliuria- polidipsia in soggetti con cistite (solitamente non tale da avere urine ipostenuriche). In caso di ipostenuria può essere complesso valutare il sedimento urinario poiché i leucociti e gli eritrociti possono lisarsi e i batteri possono essere rari: molti Autori consigliano di eseguire sempre l’esame colturale nei soggetti con urine ipostenuriche anche in caso di sedimento inattivo.
    • Nel caso in cui esista il sospetto clinico e clinico patologico di sindrome di Cushing è opportuno effettuare un test di soppressione a basse dosi con desametasone.
  4. Infine… nel caso in cui sia stato possibile escludere tutte le altre cause attraverso gli esami di laboratorio è possibile considerare le ultime due, ovvero:
    • Diabete insipido centrale: per confermare il sospetto diagnostico è necessario eseguire il test di risposta alla vasopressina. In letteratura (alla quale rimandiamo) sono disponibili diversi protocolli per l’esecuzione di questo test.
    • Polidipsia psicogena: è possibile sospettare questa patologia solo dopo avere escluso tutte le altre diagnosi.

 

Bibliografia:

  • McGrotty Y, Randell S. How to diagnose polyuria and polidipsia in dogs. Vet Rec 185 (4): 110-111, 2019
  • Nichols R. Polyuria and polydipsia: diagnostic approach and problems associated with patient evaluation. Vet Clin North Am Small Anim Prac 31(5): 833-844, 2001
  • Piech TL et al. Importance of urinalysis. Vet Clin North Am Small Anim Pract, 49(2): 233-245, 2019
  • Rudinsky A et al. Variability of first morning urine specific gravity in 103 healthy dogs. J Vet Intern Med. Sep; 33(5): 2133-2137, 2019
  • Stockham L, Scott MA. Fundamentals of Veterinary Clinical Pathology. 2nd edition, Blackwell Publ. 2008.
  • Feldman EC et al. Canine and Feline Endocrinology. 4th edition. 2015
  • http://eclinpath.com/urinalysis/concentrating-ability/

 

 


La glicosuria nel cane e nel gatto

La presenza di glucosio nelle urine (glicosuria) è un dato ottenuto in genere dall’esame chimico- fisico mediante la lettura del dipstick, che deve sempre essere correlato alla glicemia contestuale (glicosuria normoglicemica versus glicosuria iperglicemica).

Quando è presente iperglicemia (transitoria o persistente), è possibile riscontrare glicosuria nel momento in cui i livelli di glucosio nel sangue sono tali da superare la soglia di riassorbimento renale, che è pari a:

  • 280-290 mg/dL nel gatto (nei soggetti diabetici può essere inferiore, introno a 200 mg/dL);
  • 180-200 mg/dL nel cane.

La causa più frequente di iperglicemia transitoria è lo stress (indotta dal rilascio di epinefrina) che si associa a glicosuria di lieve- moderata entità, riscontrata più frequentemente nei gatti.

Le cause di iperglicemia persistente sono il diabete mellito (glicosuria solitamente di elevata entità), l’iperadrenocorticismo, l’acromegalia e il feocromocitoma. Occasionalmente si può riscontrare nei gatti ipertiroidei (per mobilizzazione delle riserve di glicogeno epatico in risposta all’aumento delle richieste energetiche e per insulino-resistenza).

In presenza invece di glicosuria con normoglicemia, il problema è da ricercarsi a livello di tubulo prossimale renale; il danno tubulare può essere congenito (sindrome di Fanconi, glicosuria renale primaria) oppure acquisito secondariamente a danno ischemico o tossico (tossicità da rame, uva e uvetta, farmaci come glucocorticoidi e clorambucile, snack a base di pollo (jerky threats)). La glicosuria normoglicemica è fisiologica nei cuccioli e gattini inferiori alle 8 settimane a causa dell’immaturità del tubulo renale.

La glicosuria viene valutata semi-quantitativamente tramite l’uso di dipstick. Sul pad avviene una reazione enzimatica in cui il glucosio nelle urine reagisce con l’enzima glucosio-ossidasi/ perossidasi andando a produrre acido gluconico e a liberare ammoniaca; quest’ultima, la cui concentrazione è direttamente proporzionale a quella del glucosio, fa virare di colore il pad più o meno intensamente a seconda della quantità presente nel campione. Risultati falsamente positivi si possono avere se le urine sono state in contatto con ammoniaca o ipoclorito di sodio (tavolo da visita, contenitore e lettiere disinfettate) oppure in corso di cistiti causate da batteri catalasi positivi. In commercio vi sono differenti kit che hanno diversi limiti inferiori di lettura (da 20 mg/dL a 100 mg/dL, estremamente variabili).

Un altro metodo per misurare la concentrazione di glucosio nelle urine è la tradizionale chimica liquida in spettrofotometria, che riesce a misurare concentrazioni inferiori rispetto al dipstick, fino a 2-5 mg/dL.

Utilizzando questo metodo nello studio retrospettivo di Zeugswetter et al. (2019), è stata dimostrata la presenza di “glicosuria basale” nella specie felina, ovvero che esiste una concentrazione di glucosio fisiologica nelle urine di gatti sani (già dimostrata nell’uomo); per questa ragione secondo gli Autori si dovrebbe parlare non di glicosuria in generale, ma di normoglicuria (livelli normali) e iperglicuria (livelli patologici). Si è stabilito un cutoff di glicosuria basale pari a 26.675 mg/dL (misurato con lo spettrofotometro): tutti i gatti erano negativi al pad utilizzando un dipstick con limite minimo di lettura di 50 mg/dL (il più comune), quindi si tratta in ogni caso di glicosurie che normalmente non verrebbero rilevate dalle comuni striscette. Il 7% dei gatti sani aveva valori superiori a 20 mg/dL ma inferiori a 50 mg/dL, sufficienti a poter dare una debole positività al pad di alcune marche di dipstick.

Recentemente è stato pubblicato un altro interessante articolo riguardo gli aspetti analitici della glicosuria: si è sempre ritenuto che la glicosuria interferisca con la lettura del peso specifico urinario mediante refrattometro, causandone una sovrastima. Nel lavoro di Behrend et al. (2019) si dimostra che nel gatto e soprattutto nel cane, vi è effettivamente un minimo incremento del peso specifico di un campione di urine al quale sia aggiunto glucosio, ma che questo non è clinicamente rilevante, e che questo incremento è tanto minore quanto più le urine sono concentrate. Il lavoro conclude che la determinazione del peso specifico anche in presenza di glicosuria risulta essere attendibile.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM dipl. ECVCP - Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM

 

Bibliografia:

  • Basal glucosuria in cats. Zeugswetter et al. J Anim Physiol Anim Nutr. (2019) 103, 324–330.
  • Effect on urine specific gravity of the addition of glucose to urine samples of dogs and cats. Behrend et al. (2019). AJVR; 80; 10.
  • Stockham L, Scott MA. Fundamentals of Veterinary Clinical Pathology. 2nd Edition. Blackwell Publ. 2008.
  • Feldman EC et al. Canine and Feline Endocrinology. 4th Edition. 2015

Pancitopenia nel cane e nel gatto

Con il termine pancitopenia si intende la presenza contemporanea di anemia, piastrinopenia e neutropenia (alcuni Autori considerano come criterio la leucopenia invece della neutropenia). La presentazione clinica di tale disordine è decisamente eterogenea perché dipende dalla causa primaria di malattia e dall’entità delle citopenie: una gravissima piastrinopenia si associa a petecchie e magari a sanguinamenti spontanei, una gravissima neutropenia potrebbe comportare sepsi secondarie, ed invece una anemia severa potrebbe dare come unico sintomo l'abbattimento. Mentre nel cane può essere considerata una patologia non infrequente, nel gatto è più rara, poiché più rare sono in questa specie le patologie causali.

Indagando in questa “pillola” le cause più frequenti di pancitopenia cercheremo di dare alcuni suggerimenti utili a percorrere il corretto iter diagnostico.

Come sempre è essenziale effettuare una meticolosa raccolta anamnestica che includa ad esempio la possibile esposizione ad agenti infettivi o che indaghi l’assunzione di farmaci. Oltre all’anamnesi e ovviamente alla visita clinica, è sempre utile al fine di formulare l’elenco delle diagnosi differenziali effettuare un pannello che includa esame emocromocitometrico, profilo biochimico esteso, elettroforesi ed esame delle urine.

La diminuzione delle tre classi è dovuta più spesso alla mancata produzione midollare, mentre solo raramente al sequestro e-o al consumo periferici, sebbene come nel caso di altre condizioni ematologiche, sono comuni patogenesi multifattoriali.

PANCITOPENIA SECONDARIA A CONSUMO – SEQUESTRO

In questo caso, a meno che non agiscano contemporaneamente più patogenesi, il midollo osseo funziona, ma non è in grado di fare fronte alle richieste periferiche, o almeno non nell’immediato. Si tratta di quadri più spesso acuti e in rapida evoluzione che devono essere monitorati quotidianamente; la valutazione dell’emogramma e dello striscio spesso rivelano segni di rigenerazione (reticolocitosi, presenza di granulociti bandati, macropiastrine) a conferma che il midollo osseo sta funzionando, rendendo così non necessario l’esame del midollo osseo. Nelle forme iperacute, è possibile non osservare da subito rigenerazione, ed è pertanto consigliabile ripetere l’esame emocromocitometrico nei giorni successivi per dare il tempo al midollo di rispondere. Una delle rare condizioni di questo tipo è rappresentata dalla sepsi: l’anemia può essere dovuta a flogosi (ma anche a perdita o emolisi), la leuco o neutropenia a consumo, marginalizzazione o sequestro nei focolai settici (con presenza di left shift e tossicità), la piastrinopenia ad endotossiemia (sequestro) o a DIC (consumo). In corso di flogosi settica, è  inoltre possibile che venga danneggiato il midollo osseo (shock endotossico, necrosi, ipossia).  Individuare la causa della sepsi e instaurare le corrette terapie risolvono la pancitopenia, a meno che non si sia verificato un grave danno irreversibile al midollo osseo. Alcune malattie da vettore quali Babesia, Ehrlichia o Anaplasma in forma acuta possono presentarsi con pancitopenia (multifattoriale, da diminuita produzione midollare e aumentata distruzione periferica): si tratta di forme reversibili che migliorano in poche ore dalla somministrazione della terapia. All’esame dello striscio ematico è possibile osservare Babesia e Anaplasma, mentre è estremamente improbabile trovare Ehrlichia a causa della bassa e breve parassitemia.

PANCITOPENIA SECONDARIA A MANCATA PRODUZIONE MIDOLLARE

Nella maggior parte dei casi la pancitopenia è dovuta ad un danno del midollo osseo che non è più in grado di produrre o far maturare correttamente le tre linee cellulari. Il danno (reversibile o irreversibile) può interessare il microambiente midollare (vasi, cellule reticolari, stroma), i precursori o entrambi. Nel sangue periferico mancano i segni di rigenerazione e, a meno che non sia chiaramente identificata una causa attraverso anamnesi, quadro clinico e altri esami strumentali o di laboratorio, è di fondamentale importanza effettuare l’esame del midollo osseo per orientarsi tra le possibili diagnosi differenziali. Si ricorda che dopo un danno acuto che interessi tutti i precursori, per via della diversa emivita di globuli bianchi, eritrociti e piastrine, compare subito neutropenia (in 1-3 giorni), quindi piastrinopenia (entro pochi giorni) e infine anemia (in settimane) poiché la discesa dell’ematocrito è lenta e avviene per senescenza naturale degli eritrociti (vita media di 80-120 giorni). L’esame dello striscio ematico in genere non è di grande aiuto e solo in alcuni casi è possibile rilevare alterazioni che orientino nella diagnosi.

Esame del midollo osseo

Sebbene sia possibile talvolta ottenere informazioni dal solo esame citologico, molto spesso in corso di pancitopenia è necessario effettuare anche l’esame istologico; questo poiché se il midollo è ipoplasico o aplastico è comune non ottenere cellule dall’aspirato e ritrovarsi un campione non diagnostico. In questo caso, l’unico modo per sapere se un campione acellulare o scarsamente cellulare è rappresentativo o meno del tessuto midollare oppure se semplicemente non è stata eseguita la procedura in modo corretto, è fare contestualmente all’aspirato un prelievo bioptico; questo può essere conservato in formalina e inviato al laboratorio in un secondo momento nel caso in cui risulti inconclusivo l’esame citologico. Sulle biopsie istologiche è inoltre possibile ove indicato effettuare colorazioni speciali o immunoistochimiche.

Sulla base degli aspetti cito-istologici si identificano quadri diversi che riconoscono patogenesi differenti:

  • ipoplasia - aplasia midollari
  • neoplasia  (mieloftisi)
  • sindrome mielodisplastica (dismielopoiesi)
  • mielonecrosi
  • mielofibrosi

Purtroppo non è raro che una stessa patologia primaria sia in grado di determinare più di un quadro morfologico complicando la diagnosi.

IPOPLASIA – APLASIA MIDOLLARI

Nel midollo restano solo pochi precursori (ipoplasia, almeno il 75% del tessuto è occupato da grasso) o addirittura nessun precursore (aplasia), mentre è possibile trovare cellule stromali, adipociti, sparse cellule infiammatorie come macrofagi, linfociti e plasmacellule.

Principali cause:

Malattie infettive: senz’altro una delle cause più comuni di ipo-aplasia, soprattutto nel cane in zone endemiche per le patologie da vettore. Oltre al danno midollare possono contribuire alle citopenie altri meccanismi quali distruzione periferica, consumo e perdita (emorragie).

Nel cane devono essere considerate Ehrlichia (in forma cronica), parvovirus e Leishmania; in corso di Leishmaniosi il midollo può essere ipo o normocellulare, talvolta si osserva iperplasia mieloide e frequentemente si possono osservare amastigoti del parassita.

Nel gatto, possono causare ipo-aplasia FIV e FeLV: queste patologie inducono citopenie attraverso numerosi meccanismi, inclusi mieloftisi per leucemia o linfoma V stadio, mielofibrosi, mielodisplasia. In caso di FeLV è frequente osservare macrocitosi e presenza di metarubricitosi in assenza di rigenerazione (inappropriata), con megaloblastosi (eritrociti nucleati con asincronie maturative e altri aspetti di displasia).

Nel caso in cui sulla base della raccolta anamnestica esista la possibilità di esposizione a uno di questi agenti eziologici, devono essere effettuati i test sierologici o molecolari.

Assunzione di farmaci: in molti casi il meccanismo di danno midollare è sconosciuto: può essere dose dipendente, idiosincrasico, su base immunomediata; nella maggior parte dei casi è sufficiente sospendere il farmaco per riportare il midollo alla sua funzionalità. Premesso che qualsiasi farmaco è potenzialmente in grado di indurre mielotossicità, ecco un elenco dei farmaci più comunemente usati per i quali questa è stata riportata in medicina veterinaria:

  • Fenobarbitale
  • Chemioterapici (ciclofosfamide, doxorubicina, vinblastina, idrossiurea e molti altri)
  • FANS (fenilbutazone, acido meclofenamico)
  • Antibiotici (sulfamidici-trimetoprim, cefalosporine)
  • Altri: albendazolo, fenbendazolo, tiacetardamide, captopril, griseofulvina, metimazolo, micofenolato

I farmaci possono essere responsabili di quadri midollari diversi, non solo di ipo o aplasia; quando ad esempio  provocano difetti maturativi a carico dei precursori (dismielo e diseritropoiesi) o esiste una componente  immunomediata, il midollo osseo può essere normo o ipercellulare, con o senza aspetti displastici o di cito ed eritrofagocitosi. Ancora una volta è importante indagare in anamnesi la possibile assunzione di qualsiasi farmaco nei mesi precedenti (non possiamo sapere da quanto tempo il paziente sia pancitopenico e ricordiamo che in caso di danno midollare l’anemia impiega settimane a manifestarsi); sebbene non ci sia modo di essere certi che sia responsabile del quadro proprio un farmaco che è stato o che viene tutt’ora assunto dal paziente, è certo buona norma sospendere qualsiasi trattamento farmacologico in atto.

Tossicità da estrogeni: l’esposizione a estrogeni, esogeni o endogeni, in alcuni casi può comportare ipoplasia o aplasia delle tre linee emopoietiche. Inizialmente si osservano leucocitosi e piastrinopenia, e circa 3-4 settimane dopo compare la pancitopenia. Per questa ragione nel caso siano state somministrate terapie estrogeniche (ad esempio per la prevenzione dell’estro, o per il trattamento dell’iperplasia prostatica) queste vanno immediatamente sospese. Devono essere ricercate neoplasie secernenti, ovvero tumori testicolari del Sertoli, cisti ovariche secernenti e tumori ovarici della granulosa. La sospensione dei farmaci e l’asportazione delle neoplasie non sempre garantisce la guarigione, poiché il danno è talvolta irreversibile.

Ipoplasia - aplasia midollare idiopatica: nel caso in cui sia possibile escludere ogni altra causa nota (cosa talvolta impossibile), la pancitopenia può essere definita idiopatica. I criteri diagnostici proposti da Weiss nel 2003 sono: pancitopenia che persiste da più di 2 settimane; esame del midollo osseo che dimostra la presenza di tessuto adiposo con riduzione > del 75% del tessuto emopoietico; negatività alle malattie infettive; nessuna assunzione di farmaci nelle 4 settimane precedenti; esclusione di tossicità da estrogeni; assenza di malattia renale cronica. Nell’uomo è noto un meccanismo immunomediato per questa patologia, che non è mai stato confermato in medicina veterinaria, e comunque i casi riportati sono piuttosto rari. Poiché resta comunque una ipotesi, è possibile in questi pazienti tentare una terapia immunosoppressiva ricordando che un midollo aplastico necessita di alcune settimane per poter dare segni di ripresa.

NEOPLASIA A LOCALIZZAZIONE MIDOLLARE

Con il termine di mieloftisi si intende la sostituzione totale o parziale del tessuto emopoietico da parte di cellule non residenti. La causa più frequente è l’invasione da parte di neoplasie primarie (leucemie mieloidi o linfoidi, soprattutto acute) o secondarie (linfoma, mieloma multiplo, neoplasie istiocitarie maligne, mastocitoma o qualsiasi altra neoplasia che possa metastatizzare al midollo). Sebbene più spesso le leucemie siano leucemiche, vale a dire che nel sangue periferico si osserva leucocitosi data dalla presenza di cellule neoplastiche, non raramente possono presentarsi in forma aleucemica e diventa quindi essenziale l’esame del midollo per identificarle. A volte sebbene sia presente leucopenia ad un esame attento dello striscio ematico si osservano rare cellule non classificabili che devono immediatamente porre una leucemia acuta tra le diagnosi differenziali. Il midollo può essere da ipercellulare a ipocellulare e la popolazione prevalente è rappresentata dalle cellule neoplastiche. Non sempre la neoplasia invade totalmente il midollo (soprattutto nel caso delle localizzazioni metastatiche): la distribuzione della neoplasia può essere irregolare, a macchia di leopardo, rendendo la diagnosi più complessa poiché non è detto che sia campionata la parte di midollo invasa.

SINDROME MIELODISPLASTICA (o dismielopoiesi)

La forma primaria è un disordine clonale emopoietico caratterizzato da citopenie singole o multiple e persistenti a fronte di un midollo osseo iperplastico con evidenti segni morfologici di displasia in una o più linee.  Il quadro può essere preneoplastico ed evolvere in leucemia acuta; in ogni caso la prognosi è infausta poiché il midollo è incapace di far maturare correttamente la o le linee affette. Quadri midollari e periferici simili possono essere secondari a numerose patologie infiammatorie, infettive, immunomediate (anemia e trombocitopenia), a somministrazione di farmaci, a carenze nutrizionali (ferro, folati), tossicità da piombo, neoplasie midollari primarie o secondarie. In questi casi, la mielodisplasia è definita secondaria e la patogenesi non è chiara: nel caso in cui sia possibile identificare e rimuovere la causa primaria, in molti casi, si ha la ripresa funzionale del midollo. Il quadro citologico-istologico del midollo è caratterizzato in genere da una presenza modesta di blasti (< 5%), che nel caso delle mielodisplasie primarie sono presenti in percentuali maggiori. Nel sangue periferico possono mancare le alterazioni morfologiche oppure possono essere presenti aspetti displastici a carico di una o più linee.

MIELONECROSI

È una condizione rara e infrequentemente che si associa a pancitopenia. Può verificarsi a causa di ischemia (ad esempio in corso di vasculite o DIC), assunzione di farmaci, malattie infettive. La necrosi può interessare solo alcune parti del midollo che potrebbero non essere campionate durante il prelievo; una biopsia istologica è comunque consigliabile poiché non è detto si riesca ad identificare la necrosi con il solo esame citologico. La necrosi può evolvere in fibrosi.

MIELOFIBROSI

La mielofibrosi è la sostituzione del tessuto emopoietico da parte di tessuto fibroso. La forma primaria, idiopatica, è considerata nell’uomo un disordine mieloproliferativo cronico ma nel cane e nel gatto molti Autori non ne riconoscono l’esistenza. La forma secondaria si verifica come processo riparativo in seguito a un danno acuto o cronico del midollo osseo. Tra le cause riconosciute in medicina veterinaria si ricordano necrosi, anemia e trombocitopenia immunomediate, deficienza di piruvato chinasi, sindromi mielodisplastiche, FeLV, neoplasie midollari primarie o secondarie, farmaci. Il prelievo citologico del midollo è solitamente acellulare ed è sempre necessario effettuare l’esame istologico accompagnato da colorazioni speciali per collagene e reticolina. Alcuni dei casi riportati in letteratura per i quali è stata ipotizzata una patogenesi immunomediata hanno risposto alla terapia immunosoppressiva con risoluzione della pancitopenia. Nel sangue periferico sono talvolta presenti alterazioni eritrocitarie quali ovalociti, elliptociti, macrociti.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM ECVCP dipl.

 

Bibliografia:

  • Frezoulis et al. Canine pancytopoenia in a Mediterranean region: a retrospective study of 119 cases (2005 to 2013). J Small Anim Pact. 2017 Jul;58(7):395-402
  • Kim et al. Clinical and magnetic resonance imaging (MRI) findings of idiopathic aplastic pancytopenia in a dog treated with cyclosporine and azathioprine. Can Vet J. 2012 Apr;53(4):419-22.
  • Brazzell et al. A retrospective study of aplastic pancytopenia in the dog: 9 cases (1996-2003). Vet Clin Pathol. 2006 Dec;35(4):413-7
  • Weiss DJ et al. A retrospective study of canine pancytopenia. Vet Clin Pathol. 1999;28(3):83-88.
  • Weiss DJ. Aplastic anemia in cats - clinicopathological features and associated diseases conditions 1996 - 2004. J Feline Med Surg. 2006 Jun;8(3):203-6.
  • Weiss DJ, Evanson OA. A Retrospective Study of Feline Pancytopenia. Comparative Haematology International 2000: 10:50–55
  • http://eclinpath.com/hematology/pancytopenia/

Reazioni idiosincrasiche da fenobarbitale

Il fenobarbitale è uno dei farmaci più utilizzati per la terapia di pazienti epilettici. Per il 50% è legato a proteine di trasporto, viene metabolizzato a livello epatico e circa un terzo viene escreto dalle urine. È generalmente ben tollerato, ma come ogni farmaco ha degli effetti collaterali; quelli prevedibili e dose dipendenti sono legati a cambio del comportamento, sedazione, atassia, ipereccitabilità ed irrequietezza. Gli effetti collaterali legati alla terapia sul lungo periodo comprendono poliuria e polidipsia, polifagia e aumento di peso. Da un punto di vista emato-biochimico, nei pazienti trattati con fenobarbitale è frequente osservare:

  • Ipertrigliceridemia (e conseguente lipemia macroscopicamente evidente) poiché il farmaco aumenta la produzione di lipoproteine VLDL a livello epatico;
  • Aumento della fosfatasi alcalina che può verificarsi già a partire da due settimane dall’inizio della terapia e che può persistere per due- quattro settimane anche dal termine della stessa: il fenobarbitale induce una aumentata sintesi da parte degli epatociti di ALP (isoenzima L-ALP). Anche la produzione di ALT e GGT (transitoria) può essere indotta dal farmaco, e pertanto il loro ruolo diagnostico per epatopatia è limitato;
  • Diminuzione di tiroxina totale (TT4) e libera (fT4) con il rischio di misclassificare i pazienti come ipotiroidei;
  • Epatotossicità, che solitamente è dose- dipendente e in base alla durata del trattamento (almeno dopo un anno). L’aumento di AST, acidi biliari basali, bilirubina e diminuzione di albumina non sono da considerarsi come indotti dal farmaco (come per ALP, GGT e AST) e quindi dovrebbero essere indagati.

Gli effetti potenzialmente più rischiosi per al vita del paziente sono però gli effetti collaterali idiosincrasici, ovvero quelli non prevedibili e indipendenti dai meccanismi d’azione del farmaco. Questi sono circoscritti a un numero limitato di soggetti e non sono dose dipendenti, ma legati a una predisposizione individuale a produrre dei metaboliti reattivi che causano stress ossidativo e/o stimolano una reazione immunitaria umorale o cellulo- mediata. I bersagli più colpiti sono il fegato (epatotossicità acuta), la cute (dermatite necrolitica superficiale), il midollo osseo e le cellule circolanti.

La discrasia da fenobarbitale è la conseguenza più grave anche se di bassa prevalenza (dallo studio di Bersan et al. interessa il 4.2% dei soggetti in terapia con fenobarbitale). Da un punto di vista ematologico i soggetti presentano gravi bi- tricitopenie periferiche (combinazione di neutropenia, trombocitopenia e anemia) e clinicamente manifestano letargia, abbattimento, mucose pallide e molto frequentemente ipertermia; il quadro clinico generalmente è secondario alle infezioni che i pazienti contraggono in quanto immunodepressi per la grave neutropenia. La sintomatologia e le alterazioni ematologiche compaiono in media dopo sei mesi dall’inizio della terapia a dosaggio standard. Non vi sono riportate predisposizioni di razza ed età, solo una maggiore prevalenza nei maschi; la completa remissione si ha in media dopo 17 giorni dall’interruzione del farmaco.

Non è ancora del tutto chiaro il meccanismo che vi è alla base della discrasia; si ipotizza che possa essere conseguente a una distruzione immunomediata delle cellule nel sangue periferico o dei precursori a livello midollare prima che vengano rilasciate in circolo le cellule mature. Lo studio di Bersan et al. riporta in cinque cani con pancitopenia un quadro midollare di ipercellularità delle tre linee con aumento del comparto proliferativo e quello maturativo meno rappresentato. Altre ipotesi sono la necrosi midollare oppure una dismielopoiesi secondaria, ipotizzata nel case report di Mathis et al., dove è riportato un quadro midollare di ipoplasia della linea eritroide e megacariocitica con iperplasia della linea mieloide con prevalenza di mieloblasti; la neutropenia periferica può essere interpretata come combinazione del quadro midollare (ridotta produzione) e la concomitante presenza di un focolaio settico (aumentato consumo).

Tra le reazioni idiosincrasiche da fenobarbitale è riportato inoltre, sia nel cane che nel gatto, lo pseudolinfoma, una forma di ipersensibilità nota anche in medicina umana come reazione avversa da farmaci antiepilettici; essa è caratterizzata da ipertermia, linfoadenomegalia generalizzata e epatosplenomegalia. Infine, in un solo gatto, è stata segnalata ipertermia di origine sconosciuta dopo una settimana dall’inizio della terapia con fenobarbitale. Entrambe queste condizioni patologiche si sono risolte rapidamente in seguito all’interruzione del farmaco.

Secondo le linee guida proposte dall’International Veterinary Epilepsy Task Force (2015), prima di iniziare una terapia con fenobarbitale, è necessario avere un quadro emato-biochimico completo del paziente (esame emocromocitometrico, profilo biochimico comprensivo di trigliceridi, colesterolo, acidi biliari basali e post prandiali); al fine di diagnosticare precocemente qualsiasi effetto collaterale, questi esami devono essere ripetuti dopo tre mesi dall’inizio della terapia e successivamente a cadenza semestrale per tutta la durata del trattamento.

In considerazione della presentazione clinica (bi-tricitopenia associata frequentemente a ipertermia), tra le principali diagnosi differenziali ricordiamo alcune malattie da vettore come Ehrlichia o Leishmania, sepsi gravi con complicanze come SIRS e DIC, leucemie acute (anche aleucemiche!). La raccolta dettagliata dell’anamnesi è di fondamentale importanza per scegliere il percorso diagnostico: la possibile assunzione di farmaci (non solo di fenobarbitale) deve sempre essere indagata, così come il rischio di esposizione a malattie da vettori.

 

Dr.ssa Silvia Rossi, DVM ECVCP dipl. – Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM

 

Bibliografia:

  • Idiosyncratic drug toxicity affecting the liver, skin, and bone marrow in dogs and cats. Trepanier LA. Vet Clin Small Anim (2013);43:1055–1066
  • 2015 ACVIM small animal consensus statement on seizure management in dogs. Podell et al. J Vet Intern Med (2016);30:477–490
  • Phenobarbitone-induced haematological abnormalities in idiopathic epileptic dogs: prevalence, risk factors, clinical presentation and outcome. Bersan et al. Veterinary Record. (2014).
  • Drug-induced blood cell dyscrasia associated with phenobarbital administration in a dog. Han-Byeol Jung et al. Korean J Vet Res (2015);55(4):263-266
  • Superficial necrolytic dermatitis in 11 dogs with a history of phenobarbital administration (1995–2002). March et al. J Vet Intern Med (2004);18:65–74
  • Diagnosis of secondary dysmyelopoiesis via costochondral rib aspirate in a dog. Mathis et al. Journal of Veterinary Emergency and Critical Care (2014);24(6):739–744
  • Suspected phenobarbital-induced fever in a cat. Djani et al. Journal of Feline Medicine and Surgery Open Reports (2019);1-3
  • Suspected phenobarbital-induced pseudolymphoma in a dog. Lampe et al. x J Vet Intern Med (2017);31:1858–1859
  • Pseudolymphoma in a cat on phenobarbital treatment. Liser et al. J Small Anim Pract (2018);59:444–447.
  • International Veterinary Epilepsy Task Force consensus proposal: medical treatment of canine epilepsy in Europe. Bhatti et al. BMC Veterinary Research (2015) 11:176
  • Effects of long-term phenobarbital treatment on the liver in dogs. Muller et al. J Vet Intern Med (2000);14:165–171
  • Hepatotoxicity of phenobarbital in dogs: 18 cases (1985-1989). Darrell-Hart B eta l. J AM Vet Med Assoc. (1991);199(8):1060-6.
  • http://eclinpath.com/hematology/pancytopenia/

MIC (minima concentrazione inibente) e confronto dei test di sensibilità

Quando disponibile, la MIC può costituire uno strumento utile per la scelta della migliore strategia terapeutica, ma solamente se interpretata e utilizzata in maniera corretta e soprattutto in caso di particolari criticità relative alla sede di infezione (sangue, sistema nervoso centrale, polmone, tessuti profondi) e le condizioni cliniche del paziente. La comunicazione da parte dei laboratori veterinari e l’interpretazione da parte del clinico della MIC è ancora oggi non molto chiara, seppur la richiesta di MIC sia cresciuta.

 

MIC REALE O MIC CALCOLATA?

La MIC (Concentrazione Minima Inibente) è una misura quantitativa dell’attività di un antibiotico verso un determinato batterio; definita come la più bassa concentrazione di antibiotico in grado di inibire la crescita batterica visibile.

E’ necessario, in ambito di MIC, fare chiarezza su ciò che si intende per MIC reale e MIC calcolata.

La prima è ottenibile solo utilizzando la metodica di riferimento della microdiluizione in brodo condotta manualmente mediante piastre dedicate e considerata ad oggi il gold standard; è certamente una metodica molto laboriosa e lunga, poco compatibile con i flussi di lavoro nei laboratori di microbiologia veterinaria.

La seconda è invece ottenibile mediante i sistemi automatizzati, largamente in uso nei laboratori veterinari: nella maggior parte di questi sistemi vengono testati diversi tipi di antibiotici in gallerie preimpostate e non modificabili nelle quali le MIC vengono calcolate mediante curve di crescita e algoritmi.

In tali sistemi non è possibile testare, per ciascuna molecola, un range di concentrazioni ma soltanto i valori di breakpoint-S e breakpoint-R.

Pertanto, il risultato indicherà soltanto la posizione del valore di MIC rispetto ai bkps esattamente come la metodica Kirby-Bauer (MIC<bkpS; bkpS<MIC<bkpR; MIC > bkpR), ma non il valore esatto di MIC.

 

CONFRONTO TRA TESTS DI ANTIBIOTICO-SENSIBILITA’

Dr Stefano Perfetto, responsabile laboratorio di Biologia molecolare e Microbiologia clinica

 

Bibliografia:

  • Clinical laboratory testing and in vitro diagnostic test systems – Susceptibility test of infectious agents and evaluation of performance of antimicrobial susceptibility test devices –Part 1:  Reference method for testing the in vitro activity of antimicrobial agents against rapidly growing aerobic bacteria involved in infectious diseases-First Edition.  ISO document 20776-1.  Switzerland:  ISO; 2006.
  • Methods for Dilution Antimicrobial Susceptibility Tests for Bacteria that Grow Aerobically; Approved Standards, 10th Ed. CLSI document M07-A10. Wayne, PA: Clinical and Laboratory Standards Institute; 2015.
  • S. Department of Health and Human Services, Food and Drug Administration, Center for Devices and Radiological Health.  Class II Special Controls Guidance Document:  Antimicrobial Susceptibility Test (AST) Systems. https://www.fda.gov/regulatory-information/search-fda-guidance-documents/class-ii-special-controls-guidance-document-antimicrobial-susceptibility-test-ast-systems.  U.S. Department of Health and Human Services; 2009.


Guida alla corretta interpretazione dell’antibiogramma

L’antibiogramma è un test che consente la valutazione della sensibilità batterica in vitro a vari antibiotici; la sua esecuzione prevede l’esposizione del microrganismo in esame a una serie di definite concentrazioni di farmaci.

Le metodiche utilizzate dai laboratori di microbiologia clinica, sia in umana che in veterinaria, sono la diffusione in agar secondo Kirby-Bauer (manuale) e la microdiluizione in brodo (automatizzabile, es. Vitek).

La metodica Kirby-Bauer, utilizzata in BiEsseA, prevede la valutazione dei diametri degli aloni di inibizione che circondano il punto di deposizione di dischetti antibiotati, mentre la microdiluizione in brodo consente di ottenere, per le varie molecole testate, la minima concentrazione inibente (MIC), ossia la più bassa concentrazione del farmaco in grado di inibire la crescita in vitro del microrganismo saggiato.

I diametri degli aloni di inibizione o le MIC vengono poi rapportati a valori soglia (breakpoint) stabiliti dallo European Committee on Antimicrobial Susceptibility Testing (EUCAST) in funzione di un complesso insieme di parametri.

Attraverso il confronto con i breakpoint, i risultati ottenuti possono essere tradotti nelle cosiddette categorie di interpretazione. In accordo con le linee guida dell’Eucast, nel nostro laboratorio abbiamo fissato, per ogni combinazione microrganismo-antibiotico, 2 breakpoints che determinano 3 categorie di interpretazione: S/I/R (vedi immagine).

CATEGORIE S/I/R E CORRELAZIONE CLINICA

  • Sensibile (S) Il ceppo viene inibito nella crescita od ucciso da concentrazioni di antibiotico raggiungibili in vivo (sieriche e tessutali)*. Un’infezione sostenuta da un ceppo batterico isolato può essere trattata appropriatamente con il dosaggio usuale dell’antibiotico testato e raccomandato per il tipo di infezione clinica. Indica una elevata probabilità di successo terapeutico. (*a seguito di somministrazione di una dose terapeutica «usuale»)
  • Intermedio (a sensibilità intermedia, I) Il ceppo mostra una MIC borderline rispetto ai livelli raggiungibili in vivo (sierici e tessutali) di antibiotico* la cui efficacia potrebbe dunque essere minore di quella registrata per gli isolati sensibili. Tuttavia, questa categoria suggerisce l’efficacia clinica nei siti corporei dove gli antibiotici sono fisiologicamente concentrati (chinolonici e β-lattamici nelle urine) o quando l’antibiotico può essere utilizzato a concentrazioni più alte di quelle normali in assenza di significativi effetti collaterali (β-lattamici). Rappresenta una “buffer zone” (zona cuscinetto) che dovrebbe evitare/ridurre rilevanti errori interpretativi (falsa sensibilità) a seguito di errori di natura tecnica, soprattutto nel caso di molecole con un ristretto margine di farmacotossicità. Indica un effetto terapeutico incerto(*a seguito di somministrazione di una dose terapeutica «usuale»)
  • Resistente (R) – Il ceppo non viene inibito/ucciso dalle concentrazioni sistemiche raggiunte in vivo (sieriche, tessutali) dall’antibiotico*. Questa categoria predice una elevata probabilità di fallimento terapeutico. (*a seguito di somministrazione di una dose terapeutica «usuale»)

La correlazione fra i test di sensibilità ottenuti in vitro e la reale efficacia clinica delle molecole nel singolo caso non è ovviamente assoluta e dipende da un insieme complesso di fattori, fra i quali:

  • L’effettivo ruolo clinico del microrganismo esaminato
  • La sede dell’infezione e la possibilità del farmaco di raggiungerla in concentrazioni adeguate
  • Il dosaggio e la corretta modalità e tempistica di somministrazione dell’antibiotico anche in relazione alle caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche

A riguardo della correlazione tra i risultati dei test di sensibilità antimicrobica (AST) e l’efficacia dei farmaci antimicrobici (AMDS) invitiamo alla lettura del seguente lavoro pubblicato dal VETCAST – EUCAST sub-committee for Veterinary Antimicrobial Susceptibility Testing.

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fmicb.2017.02344/full

 

Nella seconda parte di questa “pillola”, che posteremo nelle prossime settimane affronteremo l’argomento della MIC (minima concentrazione inibente) e confronteremo i test di antibiotico-sensibilità in uso nei laboratori di microbiologia

 

Dr Stefano Perfetto, responsabile laboratorio di Biologia molecolare e Microbiologia clinica

 

Bibliografia:

  • Bywater, R., Silley, P., and Simjee, S. (2006). Antimicrobial breakpoints-definitions and conflicting requirements.  Microbiol.118, 158–159. doi: 10.1016/j.vetmic.2006.09.005
  • Doern, G. V., and Brecher, S. M. (2011). The clinical predictive value (or lack thereof) of the results of in vitro antimicrobial susceptibility tests.  Clin. Microbiol.49, S11–S14. doi: 10.1128/JCM.00580-11
  • Clinical laboratory testing and in vitro diagnostic test systems – Susceptibility test of infectious agents and evaluation of performance of antimicrobial susceptibility test devices –Part 1:  Reference method for testing the in vitro activity of antimicrobial agents against rapidly growing aerobic bacteria involved in infectious diseases-First Edition.  ISO document 20776-1.  Switzerland:  ISO; 2006.