Aggiornamento sui fattori prognostici per il linfoma cutaneo epiteliotropo nel cane

Questa pillola di istologia è dedicata ad un approfondimento sul linfoma cutaneo epiteliotropo nel cane (classificato come linfoma a cellule T periferico).

Questa patologia neoplastica colpisce la cute, le giunzioni muco-cutanee e le mucose presentandosi in forma di lesioni di vario tipo: eritematose, ipercheratosiche, crostose, erosivo/ulcerative, con depigmentazione e, come nel caso delle lesioni sul planum nasale, anche con possibile perdita del suo normale aspetto ‘ad acciottolato’.

Nelle forme più avanzate la patologia può evolvere in forma di placche o lesioni nodulari, anche con coinvolgimento linfonodale e viscerale.

Ad ogni modo spesso la risposta alla chemioterapia è scarsa e vi è progressione della patologia, sebbene con grande variabilità nella durata del decorso clinico, con tempi di sopravvivenza che vanno da pochi giorni a 5 anni post-diagnosi, con una maggiore sopravvivenza associata, secondo lo studio di Chan, Frimberg e Moore su Veterinary Dermatology del 2018, a forme ad insorgenza solitaria e con coinvolgimento solo mucosale o a livello di giunzioni muco-cutanee.

I 3 maggiori sottotipi di linfoma cutaneo epiteliotropo nel cane sono, secondo la classificazione REAL/WHO i seguenti:

  1. la cosiddetta reticolosi pagetoide (con elementi linfoidi neoplastici localizzati solo a livello di epidermide ed annessi),
  2. la micosi fungoide (con coinvolgimento di epidermide, derma e annessi),
  3. la sindrome di Sézary (micosi fungoide associata a leucemia)

Oltre a questi tipi sono in realtà descritti anche rari casi di micosi fungoide senza coinvolgimento dell’epidermide, ma solo del derma e della parete dei follicoli piliferi.

Uno studio molto recente di Dettwiler et al. su Veterinary Pathology del 2023 si è riproposto, sulla base dell’analisi retrospettiva di 176 casi, di valutare i parametri clinici ed istopatologici associati con diverse risposte ai protocolli terapeutici e diverso tempo di sopravvivenza.

Concentrandoci, dato che stiamo somministrando una “pillola di istologia” sulle caratteristiche istopatologiche con significato prognostico, possiamo elencare i seguenti risultati scaturiti dal suddetto studio:

 

  1. coinvolgimento tissutale profondo: l’infiltrazione estesa del tessuto adiposo del pannicolo è associata con maggiore rischio di morte in tempi rapidi (tale parametro è associabile ad una forma clinicamente più avanzata con riscontro macroscopico di lesioni nodulari o a placca)
  2. dimensioni delle cellule e dei nuclei: un diametro cellulare medio maggiore a 10,0 micrometri ed un diametro nucleare medio maggiore di 8,3 micrometri sono associati ad una prognosi peggiore (con minore tempo di sopravvivenza)
  3. attività mitotica: un numero di mitosi maggiore o uguale a 7 per singolo HPF (pari ad un’area di 0.237 mm2) è anche essa associata ad una prognosi peggiore (con minore tempo di sopravvivenza)
  4. aspetto della cromatina (e del citoplasma delle cellule neoplastiche): un aspetto ammassato, irregolarmente addensato della cromatina ed un aspetto maggiormente basofilico del citoplasma delle cellule sono altri due parametri associati con un maggiore rischio di morte “istantanea”; tuttavia questi due parametri sono da valutare con maggiore cautela degli altri perché una fissazione subottimale dei campioni può alterare l’aspetto della cromatina e la basofilia del citoplasma dipende dai protocolli di colorazione del laboratorio.

Quanto ai parametri clinici analizzati riassumiamo brevemente quelli che, sulla base dello stesso studio, hanno mostrato un significato prognostico sfavorevole:

 

  1. il coinvolgimento cutaneo (non solo delle giunzioni muco-cutanee/mucosale)
  2. la formazione di noduli
  3. la formazione di lesioni crostose


Al contrario, la remissione clinica completa post-terapeutica e una forma patologica clinicamente stabile appaiono associate a tempi di sopravvivenza maggiori
.

 

Gaia Vichi DVM Dipl.ECVP

 

 

Bibliografia:

 

Chan CM, Frimberger AE, Moore AS. Clinical outcome and prognosis of dogs with histopathological features consistent with epitheliotropic lymphoma: a retrospective study of 148 cases (2003-2015). Vet Dermatol. 2018;29:154–159.

 

Dettwiler M, Mauldin EA, Jastrebski S, Gillette D, Stefanovski D, Durham AC. Prognostic clinical and histopathological features of canine cutaneous epitheliotropic T-cell lymphoma. Veterinary Pathology. 2023;60(2):162-171.

 


Vimentina e Ki67 come markers molecolari per il carcinoma gastrico del cane

In questa pillola di istologia andiamo a parlare di un recente studio che ha proposto l’utilizzo di due markers di immunoistochimica (vimentina e Ki67) per un’entità patologica neoplastica specifica: il carcinoma gastrico del cane. Come andremo a vedere nella trattazione, che richiama i punti salienti dello studio stesso, sebbene i dati da esso derivanti necessitino di ulteriori studi (possibilmente prospettici e non solo retrospettivi e con un’ampia casistica) al fine di essere validati, sembrano indicare come promettenti entrambi i markers ai fini prognostici per la neoplasia oggetto di indagine.

Il carcinoma gastrico, pur non essendo tra le neoplasie canine più frequenti rappresenta un’elevata percentuale delle neoplasie maligne di questa specie a livello dello stomaco, superiore al 50% (Amorim I et al. 2016), con frequente riscontro di metastasi (soprattutto a livello linfonodale). Dal momento che fino ad uno stadio avanzato la neoplasia ha un decorso spesso paucisintomatico la diagnosi è spesso tardiva e, in caso di infiltrazione diffusa della parete gastrica o presenza di metastasi o stato gravemente debilitato dell’animale, anche con la resezione chirurgica della neoplasia, le complicazioni sono frequenti.

Mentre per il carcinoma gastrico dell’essere umano sono riconosciuti vari markers molecolari con valore prognostico non si può ad oggi affermare altrettanto per la specie canina, anche se alcuni markers (HER-3, HER-2, EGFR, and KRAS gene) sono stati investigati per il loro potenziale prognostico, la scarsità di dati non ha permesso la definitiva validazione dei risultati.

Anche la classificazione morfologica dei vari istotipi (il papillare, il tubulare, il mucinoso, il ‘signet ring cell’ e l’indifferenziato riconosciuti dalla classificazione WHO per gli animali oltre allo scarsamente coesivo e al misto riportati nella classificazione WHO per l’essere umano, ma osservati anche nel cane) ha scarso valore prognostico. La classificazione secondo Lauren (forma diffusa, forma cosiddetta ‘intestinal-type’ e forma indeterminata nel caso di una commistione delle prime due tipologie), poi adattata anche al cane, sembra avere un migliore valore prognostico. Malgrado ciò resta la necessità di trovare dei markers molecolari con un valore prognostico significativo per la specie canina.

Lo studio recente di cui trattiamo in questa pillola di istologia (Flores AR et al. 2022) ha cercato di indagare il possibile significato prognostico dell’espressione aberrante della vimentina nelle cellule del carcinoma gastrico del cane (solitamente non espressa dalle cellule epiteliali) e della sua espressione nello stroma associato alla neoplasia, nonché dell’indice proliferativo delle cellule epiteliali neoplastiche espresso mediante immunoreattività nucleare al marker Ki67.

L’espressione aberrante della vimentina da parte delle cellule epiteliali neoplastiche è stata riscontrata solo nelle tipologie meno differenziate (classificazione secondo Lauren: forma diffusa ed indeterminata e non nella forma intestinale, meglio differenziata rispetto alle altre) e la sua espressione è risultata più intensa in corrispondenza del fronte invasivo della neoplasia.

In realtà dal punto di vista statistico non sono state osservate differenze significative, nella formazione di emboli neoplastici e metastasi, tra i carcinomi gastrici con o senza espressione aberrante della vimentina da parte dell’epitelio neoplastico. In alcuni casi tale espressione è stata inoltre riscontrata a livello di emboli e metastasi, ma non nella neoplasia primaria.

Considerando un’area pari al 16% del tessuto stromale associato alla neoplasia come cut-off per il livello di espressione della vimentina nello stroma stesso si è visto che anche in questo caso un suo alto livello di espressione era associato con la forma diffusa (scarsamente differenziata). Oltre a ciò, è anche stata notata una maggiore intensità di immunomarcatora nelle cellule stromali che circondavano clusters di cellule neoplastiche con comportamento invasivo (facendo ipotizzare che il comportamento invasivo della neoplasia possa essere promosso dalle cellule stromali con marcata espressione della vimentina che circondano i clusters di cellule neoplastiche infiltranti, sebbene siano necessari altri studi per dimostrare la validità di tale ipotesi).

Quanto all’indice proliferativo (relativo alle cellule epiteliali neoplastiche) espresso mediante Ki97 questo è stato correlabile solo al livello di espressione della vimentina nello stroma associato alla neoplasia (sempre per una possibile interazione tra cellule neoplastiche epiteliali e cellule stromali, o viceversa).

Relativamente all’effettivo significato prognostico di tali parametri sono stati fatti i seguenti riscontri:

-correlazione debole tra l’espressione aberrante della vimentina nelle cellule epiteliali neoplastiche e tempo di sopravvivenza (dei cani oggetto di studio)

-debole correlazione negativa tra l’espressione della vimentina nello stroma associato alla neoplasia e tempo di sopravvivenza

-correlazione negativa moderata tra l’indice proliferativo (delle cellule epiteliali neoplastiche) espresso mediante Ki67 (con cut-off pari al 20%) e tempo di sopravvivenza

Sebbene lo studio appena citato abbia un valore abbastanza limitato (data la sua natura retrospettiva, il numero relativamente limitato di casi indagati e la parziale perdita dei dati clinici e del follow-up di alcuni casi) resta comunque il suo valore per aver proposto due markers molecolari fino ad oggi ancora non indagati per il loro significato prognostico relativo al carcinoma gastrico del cane.

Dati i risultati sembrerebbero promettenti come markers sia l’espressione della vimentina (in particolare relativamente allo stroma associato alla neoplasia) che l’indice proliferativo (delle cellule epiteliali neoplastiche) espresso mediante Ki67.

Dr.ssa Gaia Vichi DVM, Dipl.ECVP

 

Bibliografia:

 

  • Amorim I, Taulescu MA, Day MJ, Catoi C, Reis CA, Carneiro F, Gärtner F. Canine Gastric Pathology: A Review. J Comp Pathol. 2016 Jan;154(1):9-37

 

  • Flores AR, Rêma A, Mesquita JR, et al. Vimentin and Ki-67 immunolabeling in canine gastric carcinomas and their prognostic value. Veterinary Pathology. 2022;59(6):903-914.

 


IL REFERTO ISTOLOGICO - Parte VI: Valutazione dei margini, Colorazioni speciali, diagnosi morfologica e commento

Con questa pillola di istologia si conclude la serie dedicata alle parti del referto istologico. Andiamo ad analizzare nel dettaglio le parti conclusive del referto.

 

Valutazione dei margini: si tratta della valutazione della distanza minima, espressa in millimetri, tra un tessuto neoplastico ed i margini delle sezioni in esame (ottenute mediante varie possibili metodiche di trimming, che abbiamo spiegato nel dettaglio in una pillola di istologia precedente dedicata a questo specifico argomento). Si valuta inoltre, in relazione al margine profondo, anche l’eventuale interposizione di un piano fasciale.

Ovviamente la valutazione completa dei margini si esegue per lesioni neoplastiche sottoposte a biopsia escissionale o a chirurgia radicale e non per lesioni neoplastiche sottoposte a biopsie incisionali o per lesioni di natura non neoplastica, per cui è sufficiente dire se la lesione raggiunga o meno i margini delle sezioni senza la misurazione esatta della distanza da essi espressa in millimetri.

 

Colorazioni speciali: a volte il patologo richiede ai tecnici anche l’esecuzione di colorazioni speciali, riportandone poi il risultato nel referto stesso. Per colorazioni speciali si intendono le colorazioni istochimiche e non immunoistochimiche: ovvero ottenute con reazioni chimiche tra specifici reagenti e componenti tissutali e non con l’uso di anticorpi che vanno a legare antigeni specifici sui tessuti.

Questo tipo di colorazioni può avere diverse applicazioni:

  • possono servire ad esempio a cercare nel campione in esame la presenza di alcuni agenti patogeni con particolari affinità per i reattivi stessi (Ziehl Neelsen per micobatteri, Gram per batteri Gram+ e Gram-, colorazioni argentiche per spirochete, PAS o Grocott per funghi o lieviti, mucicarminio per Criptococco)
  • possono anche servire a svelare la metacromasia delle granulazioni citoplasmatiche dei mastociti (Blu di Toluidina, Giemsa)
  • possono mettere in evidenza la presenza di particolari sostanze o elementi (Alcian blu per le mucine acide o glicosaminoglicani solfatati, Rosso Congo per l’amiloide con particolare birifrangenza verde mela all’osservazione con luce polarizzata, von Kossa per i sali di calcio, Orceina acida per le fibre elastiche, Rodanina per il rame etc…)

 

Diagnosi Morfologica: senza ombra di dubbio è la parte del referto che più interessa il clinico, anche se ricordiamo che tutte le componenti del referto concorrono alla sua completezza e al suo valore scientifico, nonché alla sua utilità, soprattutto per possibili future visite di referenza in cui occorre la documentazione più completa ed accurata possibile sulle lesioni già sottoposte ad esame istologico.

La diagnosi morfologica si compone, per le entità neoplastiche, del nome della neoplasia (che in sé spesso racchiude anche il concetto di benignità o malignità), della sua eventuale variante, del tessuto o organo in cui si localizza, oltre che del grado istologico (nel caso esista un sistema di grading riconosciuto come valido dalla comunità scientifica internazionale per quella entità neoplastica) e dell’eventuale indicazione della presenza di invasione vascolare.

Tanto per fare un esempio possiamo citare, per una neoplasia mammaria di una cagna, un Adenocarcinoma (ovvero neoplasia maligna di origine ghiandolare), mammario (tessuto colpito), tubulare (pattern della neoplasia), semplice (ovvero composto da solo epitelio), di grado III (secondo il sistema di grading che nel caso delle neoplasie mammarie canine è quello secondo Peña et al.), con numerosi emboli neoplastici in vasi linfatici peritumorali (indicazione aggiuntiva relativa alla presenza di invasione vascolare e della quantità di emboli).

Per le lesioni infiammatorie, la diagnosi morfologica si compone di un nome che indica la presenza di flogosi ed il tessuto colpito, più una serie di “descrittori” che indicano la cronicità o l’acuzie del processo patologico, la tipologia di infiltrato infiammatorio, la sua distribuzione e la sua entità.

Anche in questo caso facciamo un esempio: pannicolite (flogosi del tessuto sottocutaneo), cronica (cronicità), piogranulomatosa (con infiltrato composto da neutrofili e macrofagi epitelioidi, eventualmente anche con cellule giganti multinucleate), focale (distribuzione in un singolo focolaio), di moderata entità (indica la gravità della flogosi stessa).

Per le lesioni degenerative sarà invece riportata la tipologia di lesione, la sede colpita, la distribuzione e la gravità.

Per fare un esempio potremmo citare una amiloidosi (tipo di lesione) epatica (localizzazione), diffusa e massiva (distribuzione), di severa entità (gravità della lesione).

A volte, infine, nel caso il processo patologico abbia un’eziologia specifica, oltre alla diagnosi morfologica si indica anche l’eziologia stessa o si fa una diagnosi eziologica (indicando in soli due termini l’agente eziologico ed il tessuto colpito, ad esempio demodicosi cutanea follicolare nel caso di un’infestazione da Demodex spp. nei follicoli piliferi della cute).

 

Commento: è la parte conclusiva del referto ed è compilato dal patologo quando si ritiene opportuno dare ulteriori indicazioni al clinico, ad esempio scrivendo in maniera esplicita la benignità o la malignità di una neoplasia (cosa che può risultare gradita al clinico stesso per riuscire a spiegare in termini semplici la diagnosi al proprietario dell’animale) e la sua esatta origine tissutale, oppure esprimendo la possibile presenza di diagnosi differenziali per alcuni tipi di lesioni non riconducibili con assoluta certezza ad una determinata entità patologica, o ancora elencando al clinico ulteriori possibili indagini aggiuntive utili ad avere una diagnosi più esatta o completa.

In questa sezione, infatti, il patologo può indicare al clinico l’opportunità di procedere con indagini di immunoistochimica (e qui rimandiamo ad una precedente pillola di istologia in cui veniva chiarita la loro utilità) o con indagini di biologia molecolare (come la PARR per la valutazione della clonalità linfoide per sospetti linfomi o una PCR o una FISH per la ricerca di un agente eziologico specifico, sospettato, ma non immediatamente riconoscibile nelle sezioni esaminate mediante istologia).

 

Dr.ssa Gaia Vichi, DVM, Dipl. ECVP

 


IL REFERTO ISTOLOGICO - Parte V: caratteri associati a comportamento biologico maligno ed altri dettagli morfologici

Proseguendo la nostra serie di “pillole di istologia” sulle varie parti di un referto istologico ci concentriamo, con questa breve discussione, sugli ultimi paragrafi della descrizione istologica, relativi in particolare alle entità neoplastiche.

 

A. I caratteri associati a comportamento biologico maligno di una neoplasia possono essere diversi. Vediamone un breve elenco:

  1. Necrosi: vanno sempre descritti, se presenti nel contesto di un tessuto neoplastico, eventuali fenomeni di necrosi, indicandone se possibile anche la loro esatta tipologia (necrosi coagulativa, necrosi colliquativa, necrosi caseosa, cosiddetta “single cell necrosis” o necrosi di cellule neoplastiche singole disseminate nel contesto della lesione). Ovviamente se la necrosi è presente va indicata anche la sua distribuzione e soprattutto la sua estensione in relazione alle dimensioni della lesione in termini percentuali. La percentuale di necrosi sul tessuto neoplastico è infatti, per alcune entità patologiche, uno dei parametri da valutare per il grading istologico (ad esempio per i sarcomi dei tessuti molli).
  2. Emorragia: anche per eventuali fenomeni di tipo emorragico va descritta, nel caso siano presenti, la distribuzione e la loro estensione nel contesto della lesione.
  3. Invasione capsulare: a volte la distinzione di un processo neoplastico maligno rispetto alla sua controparte benigna può risultare difficoltosa, in quanto le cellule di una neoplasia maligna non necessariamente mostrano un grado elevato di anisocitosi/anisocariosi o abbondante attività mitotica. In alcuni casi un criterio distintivo di malignità può essere l’invasione di un eventuale tessuto capsulare che circonda lo stesso tessuto neoplastico (ad esempio ciò accade spesso per i carcinomi della tiroide).
  4. Invasione vascolare: alcune neoplasie maligne hanno un comportamento biologico non solo aggressivo ed infiltrante nei confronti dei tessuti limitrofi, ma anche con tendenza ad invadere i vasi linfatici, e talvolta ematici, formando emboli che possono poi consentire, entrando in circolo, l’impianto neoplastico in linfonodi regionali o in altri organi e tessuti a distanza. Va pertanto indicata l’eventuale presenza di emboli neoplastici intravasali, indicando il loro quantitativo (scarso: <5 foci; moderato: 5-10 foci; abbondante: >10 foci), la tipologia di vasi coinvolti (linfatici/ematici) e la loro distribuzione (intratumorale/peritumorale).

Anche la presenza di elementi neoplastici in sede subendoteliale, che tendono a protrudere nel lume vascolare senza oltrepassare l’endotelio stesso (cosiddetto “vascular impingement”, oppure esito di una ri-endotelizzazione di tessuto neoplastico dopo invasione vascolare vera e propria), merita l’attenzione del patologo in quanto impone l’attenta ricerca di ulteriori parametri tali da identificare una eventuale invasione vascolare propriamente detta (presenza di trombi aderenti ad elementi neoplastici intravasali, cellule neoplastiche che invadono sia la parete vasale che l’endotelio, cellule neoplastiche nel lume di spazi vascolari rivestiti da endotelio, cellule neoplastiche in strutture di natura vasale confermata anche con eventuale ausilio di markers immunoistochimici nei casi dubbi).

 

B. Vi sono poi anche dettagli morfologici aggiuntivi, talvolta anche essi importanti per il grading istologico di alcune entità neoplastiche, come la presenza e l’eventuale intensità di una flogosi concomitante al processo neoplastico (che costituisce ad esempio uno dei parametri che concorrono al sistema di grading per i sarcomi dei tessuti molli cutanei e sottocutanei del gatto recentemente proposto da Dobromylskyj et al. nel 2021), l’eventuale presenza di ulcerazione (che costituisce un parametro prognostico sfavorevole, ad esempio, per le neoplasie melanocitarie cutanee del cane), o la presenza di mineralizzazione (ad esempio per eventuali fenomeni di calcificazione distrofica nel contesto di foci di necrosi, oppure legata ad alcune entità patologiche specifiche, come ad esempio il pilomatricoma, che costituisce una neoplasia benigna di origine annessiale/follicolare, talvolta anche con possibile formazione di tessuto osseo).

Infine, se nei preparati sono presenti altre alterazioni a carico dei tessuti limitrofi alla lesione principale (che sia neoplastica o meno) il patologo descriverà anche tali aspetti morfologici, al fine di “contestualizzare” le lesioni stesse.

Concludendo, al clinico potrà sembrare che tutti i dettagli riportati dal patologo nel paragrafo descrittivo di un referto istologico siano meno importanti dei campi relativi alla diagnosi morfologica e al commento sulla lesione, ma in realtà come recita un vecchio detto “il diavolo si nasconde nei dettagli” e, soprattutto, i dettagli osservati e descritti dal patologo consentono di corroborare la sua conclusione diagnostica ed agevolano anche un eventuale confronto tra colleghi sul caso stesso, in quanto documentano, appunto nel dettaglio, tutto ciò che il patologo ha visto, come una lunga serie di “fotografie” scattate ai vari campi microscopici.

I dettagli descrittivi garantiscono anche il fatto che il patologo abbia effettivamente valutato a fondo il preparato o i preparati, non limitandosi ad una descrizione sommaria o a una diagnosi “preconfezionata” applicabile ad entità patologiche simili, della stessa natura, ma non necessariamente identiche. Non si tratta solo di una “personalizzazione” del referto, ma di una sua effettiva validazione in termini qualitativi e di corrispondenza alla realtà oggettiva dell’aspetto istologico delle singole lesioni.

 

Dr. Gaia Vichi, DVM, Dipl. ECVP

 

Bibliografia:

 


IL REFERTO ISTOLOGICO - Parte IV: La conta mitotica (e la sua standardizzazione)

L'attività mitotica è una componente fondamentale da valutare nell’esame istologico delle entità neoplastiche.

La sua valutazione, inoltre, oltre ad essere, per alcune entità neoplastiche, un indice prognostico indipendente, rientra assieme ad altri parametri nella maggior parte dei sistemi di grading neoplastico (grading istologico da non confondere con lo staging clinico o stadiazione, effettuata non dal patologo, ma dall’oncologo clinico che segue il caso).

Le neoplasie maligne hanno solitamente un’elevata attività mitotica (con maggiore proliferazione cellulare rispetto a neoplasie con comportamento biologico meno aggressivo).

Senza ombra di dubbio la valutazione istologica dell’attività mitotica necessita, al pari della valutazione degli altri dettagli morfologici delle entità neoplastiche, di un sistema standardizzato ed universalmente riconosciuto come valido ed applicabile ai vari sistemi di grading.

A tale scopo si utilizza solitamente la Conta Mitotica, intesa come il numero di figure mitotiche in 10 campi istologici a forte ingrandimento (detti high-power fields o hpf), ovvero ad ingrandimento 400x, applicata sia in ambito di istologia oncologica umana che veterinaria ed utilizzata anche dai sistemi di diagnostica digitale.

A tal proposito, al fine di una standardizzazione completa va specificato che l’area di osservazionecorrispondente a 10 campi istologici ad ingrandimento 400x è in realtà variabile (del 33% o più) a seconda del numero di campo (Field Number o FN) dell’oculare del microscopio utilizzato.

La comunità scientifica internazionale ha stabilito quindi la necessità della valutazione della Conta Mitotica su un’area ben precisa, pari nello specifico a 2,37 mm2, ovvero l’area di 10 HPF osservati con oculare 10x con FN 22mm (il tipo di oculare attualmente più utilizzato).

Ovviamente nel caso della microscopia digitale sono gli stessi tools informatici a permettere di determinare tale area standard con opportuni sistemi di calcolo e nel caso della microscopia ottica, senza scendere troppo in dettagli tecnici, il patologo, qualora debba usare un microscopio con un oculare con diverso FN, dispone dei fattori di conversione necessari ed andrà ad eseguire la Conta Mitotica su un numero di campi diverso a seconda delle ottiche in uso, ottenendo ad ogni modo, alla fine, un valore calcolato sull’area standard di 2,37 mm2.

Un altro criterio che necessita di standardizzazione è la scelta delle porzioni delle lesioni su cui effettuare la Conta Mitotica stessa. Tale conta andrebbe infatti effettuata nelle porzioni di tessuto neoplastico a maggiore densità cellulare, evitando aree con necrosi, emorragie, fibrosi, alterazioni artefattuali o spazi cistici.

Infine, un aspetto non banale è la definizione di ciò che va conteggiato come “figura mitotica”: vanno conteggiati gli aggregati di cromatina privi di membrana nucleare e con proiezioni periferiche di materiale nucleare (materiale cromosomiale). Anche se gli aggregati cromosomiali sono già tra loro distanti (telofase) dovrebbero essere ad ogni modo conteggiati come 1 singola mitosi. Ovviamente il patologo dovrà anche distinguere dalle mitosi, senza conteggiarle come tali, eventuali figure di apoptosi e cariopicnosi.

Tutte queste informazioni sulla standardizzazione della Conta Mitotica rientrano forse più nell’interesse dei patologi che dei clinici, ma indubbiamente possono chiarire alcuni dubbi a chi si ritroverà nei referti una Conta Mitotica valutata su un’area ben precisa di 2,37 mm2, anziché sui “cari vecchi 10 HPF”.

I valori di cut-off già pubblicati in passato per l’utilizzo della Conta Mitotica nei vari sistemi di grading si riferiscono alla valutazione su 10 HPF e a tali sistemi di grading si rimanda spesso nei commenti dei referti delle entità neoplastiche, ma senza dubbio l’area standard di 2,37 mm2 sarà sempre più spesso utilizzata in futuro anche per nuovi studi scientifici e per la stessa validazione dei sistemi di grading già in uso.

E’ perciò importante che anche i clinici familiarizzino con questo sistema di standardizzazione, per poter comprendere meglio il “linguaggio dei patologi” e la sua applicazione per quanto di loro maggiore interesse, ovvero il significato prognostico di quello che il patologo descrive, e in questo caso, conteggia.

 

Gaia Vichi, DVM, Dipl. ECVP

 

Bibliografia:

  • Meuten DJ, Moore FM, George JW. Mitotic Count and the Field of View Area: Time to Standardize. Veterinary Pathology. 2016;53(1):7-9.

IL REFERTO ISTOLOGICO - Parte III: Le caratteristiche cellulari

In questa terza pillola di istologia dedicata alle parti del referto istologico continuiamo ad occuparci della sezione relativa alla descrizione istologica di una lesione neoplastica parlando, questa volta, della descrizione delle caratteristiche morfologiche cellulari e nucleari e delle “caratteristiche particolari” delle cellule neoplastiche.

I dettagli morfologici delle cellule neoplastiche sono, come è facile intuire, uno dei punti salienti per il riconoscimento della linea cellulare di origine, e di conseguenza per la diagnosi stessa, ma vediamo nel dettaglio cosa viene valutato dal patologo in questa sezione del referto istologico.

  • Forma delle cellule: cuboidale, colonnare, poligonale, fusata o stellata, rotondeggiante. A seconda dei tessuti di origine, le cellule tendono ad avere forme specifiche: ad esempio gli epiteli sono composti da elementi a geometria cuboidale (a volte con aspetto maggiormente appiattito), colonnare o poligonale, mentre gli elementi cellulari dei tessuti connettivali, di origine mesenchimale, hanno forma tendenzialmente fusata o stellata e gli elementi di origine emopoietica e leucocitaria hanno aspetto solitamente rotondocellulare. Va da sé, pertanto, che la valutazione della forma delle cellule è spesso uno dei maggiori indizi sulla loro origine.
  • Dimensioni celle cellule: le cellule possono essere di dimensioni variabili, solitamente da pochi micrometri a decine di micrometri e tali dimensioni vanno riportate nella descrizione morfologica, preferibilmente in senso assoluto (valore dimensionale medio o range relativo alle dimensioni minime e massime indicate appunto in micrometri).
  • Bordi cellulari/citoplasmatici: è anche importante indicare il grado di demarcazione dei margini citoplasmatici, in quanto anche questo risulta differente a seconda del tessuto di origine (solitamente gli elementi epiteliali o di origine leucocitaria hanno margini citoplasmatici abbastanza ben definiti, mentre gli elementi mesenchimali hanno un aspetto scarsamente definito dei loro bordi cellulari).
  • Citoplasma (quantità e dettagli): va riportato, in merito al citoplasma, il suo quantitativo (scarso, moderato, abbondante) in rapporto alle dimensioni cellulari o indicato in relazione alle dimensioni del nucleo, mediante il rapporto dimensionale Nucleo/Citoplasma. Del citoplasma stesso si descrivono poi gli aspetti morfologici, come l’affinità tintoriale (più o meno eosinofilo o a volte lievemente basofilo), gli eventuali aspetti di granulosità, rarefazione o vacuolizzazione (indicando in tal caso anche se i vacuoli hanno bordi netti o meno, le loro dimensioni e l’aspetto del loro contenuto). Nel caso si osservino contenuti citoplasmatici particolari va descritta la loro tipologia ed il loro colore e la loro affinità tintoriale a differenti colorazioni speciali. Facciamo alcuni esempi di contenuti citoplasmatici di varia natura:
    • granulazioni assai finemente granulari-pulverulente e di colore brunastro sono compatibili con pigmento melaninico nelle cellule di origine melanocitica, mentre se lo stesso pigmento risulta fagocitato da elementi macrofagici detti melanofagi può assumere l’aspetto di granulazioni di dimensioni maggiori, grossolane-irregolari;
    • fini granulazioni basofiliche con aspetti di metacromasia a colorazioni speciali come il Blu di Toluidina o il Giemsa sono tipiche dei mastociti;
    • fini granulazioni citoplasmatiche eosinofiliche e con positività citoplasmatica alla colorazione PAS sono osservabili nel cosiddetto granular cell tumor;
    • in alcuni carcinomi le cellule possono avere un aspetto cosiddetto ‘ad anello con castone’, ovvero con nucleo spostato alla periferia cellulare, sospinto da un vacuolo, talvolta contenente materiale mucinoso positivo alla colorazione PAS;
    • nel caso di fibromi del coniglio indotti dal Rabbit fibroma virus (o Shope fibroma virus) si riscontra frequentemente la presenza di voluminosi inclusi virali citoplasmatici eosinofilici (da Poxvirus) nelle cellule fibromatose proliferate e nei cheratinociti dell’epidermide di rivestimento.
  • Dettagli nucleari:
    • numero dei nuclei: i nuclei possono essere singoli, o talvolta doppi, tripli o multipli
    • posizione nella cellula: i nuclei possono trovarsi in posizione centrale o paracentrale o ad un polo cellulare (negli epiteli ad esempio in posizione basale o apicale in relazione alla disposizione cellulare rispetto alla membrana basale dell’epitelio), o ancora in posizione periferica o fortemente periferica (come negli osteoblasti neoplastici dell’osteosarcoma in cui il nucleo può anche avere un aspetto cosiddetto ‘punched out’, ovvero quasi ‘spinto fuori’ rispetto alla cellula stessa, in realtà ad ogni modo contenuto nella membrana cellulare) e se doppi o multipli in posizione casuale all’interno del citoplasma o con disposizioni peculiari (come nel caso di nuclei eccentrici e simmetrici nelle cosiddette ‘cellule a testa di insetto’ o di nuclei multipli e periferici, disposti in semicerchio o a cerchio nelle ‘cellule a corona’, entrambe tipologie cellulari riscontrabili ad esempio nei sarcomi dei tessuti molli derivati dalle guaine perivascolari)
    • dimensioni dei nuclei: si indica il diametro nucleare medio o il range dimensionale se tale valore non è costante in tutta la popolazione cellulare, espresso in termini di micrometri o come grandezza dei nuclei in rapporto alle dimensioni di un eritrocita, come spesso si fa ad esempio per i linfomi
    • forma dei nuclei: la forma del nucleo può essere rotondeggiante, ovoidale, allungata, a volte con estremità arrotondate ed aspetto ‘a sigaro’ (come nelle neoplasie del tessuto muscolare liscio), o con profilo indentato o a volte con forma e profilo irregolare (aspetto pleomorfo)
    • trama cromatinica: la trama cromatinica può essere reticolata, irregolarmente e grossolanamente addensata, a volte con aspetto marginato (come può avvenire ad esempio nella linea plasmacellulare)
    • numero, grandezza, aspetto e distribuzione dei nucleoli

Oltre a tali dettagli morfologici cellulari vengono anche riportate, in un paragrafo aggiuntivo, le “caratteristiche particolari” delle cellule neoplastiche quali l’eventuale presenza di cellule giganti multinucleate (osservabili in alcune tipologie neoplastiche come il cosiddetto sarcoma pleomorfo indifferenziato o undifferentiated pleomorphic sarcoma: UPS, un tempo chiamato, appunto, tumore a cellule giganti dei tessuti molli), eventuali aspetti di cheratinizzazione, secrezione o produzione di sostanze da parte delle cellule neoplastiche, invaginamenti del citoplasma etc…

Vengono riportati, infine, in coda al paragrafo relativo alla descrizione delle caratteristiche cellulari e nucleari, il grado di anisocitosi (variazione di aspetto e dimensioni delle cellule neoplastiche) e di anisocariosi (variazione di aspetto e dimensioni dei loro nuclei). Sia l’anisocitosi che l’anisocariosi, se di grado elevato, sono generalmente correlabili ad una diminuzione o alla perdita della differenziazione cellulare e quindi associate ad un comportamento biologico più maligno della neoplasia stessa.

 

Dr.ssa Gaia Vichi, DVM, Dipl.ECVP


IL REFERTO ISTOLOGICO - Parte II: Pattern cellulari e descrizione dello stroma

Proseguendo la serie delle “pillole” dedicate alle parti strutturali del referto istologico passiamo ad altre componenti della descrizione microscopica che seguono la cosiddetta “subgross description”, iniziando dal concetto di pattern o disposizione spaziale delle cellule che compongono una lesione neoplastica e dalla descrizione della sua componente stromale.

Il pattern fornisce indicazioni utili relativamente ai rapporti spaziali tra le cellule neoplastiche (ad esempio legate alla presenza/assenza di coesività cellulare) e tra le cellule e le componenti tissutali extracellulari (che, come vedremo più avanti, concorrono a formare il cosiddetto stroma neoplastico).

Mettiamo in evidenza, inoltre, il fatto che le neoplasie mesenchimali vengano talvolta poste in diagnosi differenziale con forme di proliferazione cellulare di tipo reattivo (fibroplasia reattiva, reazioni cicatriziali…). Per questo motivo risulta utile, ai fini diagnostici, la considerazione che nelle forme reattive è spesso apprezzabile una differente “organizzazione zonale” con un gradiente maturativo. Nei casi di fibroplasia reattiva focale, ad esempio, i fibroblasti in attività proliferativa tendono a circondare una zona centrale ipocellulare.

Vediamo ora, sulla base delle diverse linee cellulari di origine delle neoplasie, quali sono le tipologie di pattern più frequentemente riscontrabili a livello istologico:

 

  1. Neoplasie epiteliali (caratterizzate generalmente da elevata coesività tra gli elementi cellulari)
  • nidi, lobuli, tappeti solidi, pacchetti, trabecole e cordoni
  • se con differenziazione ghiandolare anche strutture tubulari, acinari, papillari, follicolari

 

  1. Neoplasie mesenchimali (a cellule fusate, con coesività solitamente da moderata a scarsa):
  • fasci o fascicoli, setti, organizzati in maniera fascicolata parallela o intrecciata, a spina di pesce, con distribuzione radiale, ‘ad impronta’, con andamento vorticoso
  • ad organizzazione perivascolare (ad esempio con interposizione di piccoli vasi ramificati “a corna di cervo” o ad aspetto “placentoide”, oppure ad aspetto capillare o cavernoso, o fissuriformi, dissecanti)
  • ad organizzazione perineurale (ad esempio con allineamento dei nuclei “a palizzata” in aree densamente cellulari cosiddette di tipo Antoni A, oppure in aree a tessitura lassa di tipo Antoni B, con formazione di palizzate tra loro separate da aree anucleari dette corpi di Verocay, o ancora con andamento vorticoso o con formazione di strutture che richiamano piccole radici nervose)
  • con altri pattern come quello alveolare, con aderenza di elementi neoplastici periferici a setti fibrosi e perdita di coesività in aree centrali simili a spazi alveolari, come in alcune forme di rabdomiosarcoma

 

  1. Neoplasie rotondocellulari (formate da cellule “discrete” ovvero senza coesività cellulare):
  • foglietti o filiere-cordoni privi di coesività cellulare

 

Assieme al pattern cellulare si valuta anche la componente stromale della neoplasia, ovvero il tessuto connettivale interposto agli elementi neoplastici stessi e/o alle aree di proliferazione neoplastica o a loro sostegno. Lo stroma può essere semplicemente un tessuto collagenico preesistente, composto da esili fasci di materiale extracellulare ad aspetto fibrillare eosinofilo (fasci di collagene appunto) con interposizione di un quantitativo variabile di elementi cellulari ad aspetto fibrocitico, oppure può avere aspetti peculiari, ad esempio di ialinizzazione o con accumulo di matrice extracellulare ad aspetto lasso e debolmente bluastro riferibile a matrice mixoide, oppure può essere di tipo fibrovascolare e a tessitura lassa, con presenza di piccoli vasi ematici interposti.

Talvolta, infine, si osserva anche la deposizione, tra gli elementi neoplastici, di sostanze particolari e rinonoscibili sulla base delle loro caratteristiche alla colorazione di routine con ematossilina-eosina e con l’ausilio di colorazioni speciali istochimiche (ad esempio colorazione Rosso Congo ed osservazione a luce polarizzata per l’amiloide, colorazione Alcian blu per le mucine acide etc…), oppure la deposizione di matrice osteoide, cemento, dentina.

Sia il pattern o distribuzione degli elementi cellulari, sia le caratteristiche dello stroma, sono tessere fondamentali per comporre il “puzzle” morfologico che guida il patologo alla diagnosi ed in quanto tali sono componenti chiave del referto istologico stesso.

Nelle prossime “pillole di istologia” vedremo insieme, una ad una, le restanti tessere del “puzzle diagnostico” spiegandone di volta in volta l’importanza.

 

Dr.ssa Gaia Vichi – DVM, Dipl.ECVP

 


IL REFERTO ISTOLOGICO: Parte I: dall'identificazione del caso alla descrizione microscopica "subgross"

Con questa pillola di istologia si apre una serie dedicata alla spiegazione delle varie parti di cui si compone un referto istologico.

Ciò permette una migliore comprensione della struttura e dei dettagli del referto stesso, anche da parte di chi normalmente non si occupa di patologia e rende più facile spiegare il referto anche ai proprietari degli animali.

Iniziamo a vedere insieme le varie parti che compongono il REFERTO ISTOLOGICO:

A. I primi dati che vengono riportati su ogni referto istologico sono quelli relativi all’identificazione del caso (data di accettazione, numero di referto, data di refertazione, dati del proprietario e del Medico Veterinario referente), seguiti dai dati di segnalamento del soggetto (specie, razza, sesso, età), oltre al numero progressivo di inclusione dei campioni.

B. Segue quindi un campo che riporta i dati forniti dal clinico in merito alla descrizione del materiale inviato e all’anamnesi: ovviamente i dati saranno tanto più ricchi ed esaustivi ed utili al patologo stesso quanto più sarà dettagliata la descrizione del caso e del materiale inviato fatta dal clinico. Per questo vi invitiamo a consultare, seguendo il link riportato in seguito, una delle nostre passate “Pillole di istologia” relativa alla corretta compilazione del modulo di richiesta per gli esami istologici: L'importanza della corretta compilazione del modulo di richiesta dell'esame istopatologico - Biessea

C. Entrando nella sezione descrittiva, il primo campo che troveremo sarà quello della Descrizione Macroscopica del campione o dei campioni; vediamo quindi quali possono essere le informazioni qui riportate ed il loro significato:

  1. Tipo di campionamento: biopsia incisionale (il che significa che il campione è rappresentativo solo di una parte della lesione) eseguita mediante punch bioptico, o mediante ago bioptico o con altro mezzo chirurgico, biopsia escissionale (ovvero campione rappresentativo della lesione in toto), biopsie endoscopiche etc…
  2. Dimensioni del campione: vengono indicate le dimensioni post-fissazione, che possono risultare lievemente inferiori rispetto a quelle del campione appena escisso.
  3. Informazioni relative ai margini: vengono riportate ogni qual volta possibile, sulla base delle indicazioni fornite dal clinico sull’eventuale orientamento spaziale dei margini del campione (ad esempio con un diverso numero di punti da sutura o con colori acrilici o inchiostri diversi posti sui vari margini del campione). Tali indicazioni sono poi utilizzate dal patologo durante la lettura istologica dei preparati per la valutazione dei margini chirurgici, che può essere effettuata grazie a varie metodiche di trimming (idonee alla tipologia del campione stesso).

Nota bene: relativamente alla corretta indicazione dei margini chirurgici (nel caso si sia effettuata un’exeresi completa di una lesione e si intenda richiederne appunto la valutazione dei margini di escissione) vi invitiamo a consultare una delle nostre passate “Pillole di istologia” dedicata a tale argomento: Come indicare correttamente i margini chirurgici al laboratorio - Biessea

D. Ed ora iniziamo finalmente ad entrare “nel cuore” di un referto istologico, ovvero nella sezione dedicata alla Descrizione Microscopica:

La descrizione microscopica si compone fondamentalmente di 7 paragrafi per le lesioni neoplastiche, con alcuni punti descrittivi in comune con le lesioni non neoplastiche (come ad esempio quelle infiammatorie).

In questa prima “Pillola di istologia” dedicata alle parti del referto istologico analizzeremo il primo di questi paragrafi, rimandando gli altri “alle prossime puntate” e nel corso di queste, dopo aver parlato dei punti descrittivi delle lesioni neoplastiche, tratteremo nel dettaglio la descrizione di quelle non neoplastiche.

I. Descrizione Microscopica, prima parte: descrizione “sub-macroscopica” o “subgross”.

In questo paragrafo il patologo indica quanto osservabile relativamente al campione e alle lesioni in esso presenti valutando i preparati ad un basso ingrandimento, ovvero solitamente con obiettivi 2,5x oppure 4x. I parametri valutabili a questo ingrandimento sono i seguenti:

  1. Organo/i tessuto/i coinvolti, localizzazione esatta delle lesioni e loro distribuzione: ad esempio potremmo indicare che la lesione o le lesioni coinvolgono come organo la cute ed in particolare il derma superficiale e medio (risparmiando il derma profondo ed il sottocute). Ovviamente nella maggior parte dei casi il clinico sa già perfettamente quale sia l’organo coinvolto da una lesione, ma può capitare, ad esempio per lesioni intracavitarie soprattutto intra-addominali che non sia immediatamente chiaro a livello macroscopico, durante la chirurgia, quale sia la sede di origine di una lesione occupante spazio. Inoltre, indicare la localizzazione esatta di un processo patologico, consente di individuare con precisione il coinvolgimento stratigrafico nel caso di organi con una precisa stratigrafia (come la cute e gli organi cavi). Soprattutto per le lesioni non neoplastiche, ad esempio infiammatorie, si indica anche il loro pattern di distribuzione: ad esempio diffuso, disseminato, multifocale, multifocale-confluente.
  2. Dimensioni/estensione delle lesioni: possono essere indicate le dimensioni assolute della lesione (come spesso si fa nel caso di masse neoplastiche) o relative, riportando la percentuale di tessuto campionato coinvolto.
  3. Forma: la forma delle lesioni viene indicata nel caso di neoplasie ed altre lesioni occupanti spazio. Una massa, ad esempio, può avere forma rotondeggiante o globosa, ovoidale, allungata, a placca, concava, cupoliforme, polipoide, con base di impianto peduncolata o sessile.
  4. Aspetto capsulato o non capsulato o con pseudocapsula composta da tessuto connettivale compresso dall’espansione della lesione.
  5. Demarcazione: si indica se la lesione è ben delimitata, moderatamente delimitata, scarsamente delimitata o non delimitata.
  6. Tipo di crescita: comportamento espansivo o infiltrante a carico del tessuto in cui si sviluppa la lesione.
  7. Densità cellulare: questo parametro si indica sia per le lesioni neoplastiche che per altre lesioni, ad esempio nel caso di un infiltrato infiammatorio.

 

Dr.ssa Gaia Vichi - DVM, Dipl.ECVP


Immunoistochimica: cosa è e a cosa serve?

Talvolta alla fine di un referto istologico il clinico può trovare un commento del patologo che indica la possibilità di eseguire sui tessuti stessi, già esaminati, un’indagine aggiuntiva di immunoistochimica.

A volte si pensa che l’esame istologico in sé sia quanto di più completo ed esaustivo per la diagnosi di una determinata entità patologica, così nel riscontrare nel commento un simile “suggerimento” di approfondimento diagnostico il clinico può restare deluso in questa sua aspettativa.

Indubbiamente il patologo si limita ad elencare al clinico quali sono le varie opportunità per completare il quadro diagnostico, lasciando poi la scelta di richiedere o meno tali indagini aggiuntive al cliente stesso, offrendo sempre e comunque la propria disponibilità a spiegare, con la propria attività di consulenza, l’utilità di tali eventuali test.

In ogni caso può risultare utile, al clinico, la lettura di questo breve approfondimento relativo all’immunoistochimica, per comprenderne al meglio il funzionamento e l’utilità.

Senza scendere troppo nei dettagli tecnici, l’immunoistochimica è una tecnica analitica che si esegue sui tessuti al fine di valutare l’espressione, da parte delle cellule che li compongono, di determinate molecole mediante l’utilizzo di anticorpi specifici che le vanno a legare, sul tessuto stesso, e di opportuni sistemi di rilevamento di tale legame per mezzo di anticorpi secondari.

Vediamo ora quale sia l’utilità e quali possano essere le applicazioni di questa metodica.

Generalmente l’immunoistochimica trova il suo impiego per la diagnostica oncologica, essendo utile alla rilevazione sui tessuti neoplastici dell’espressione di determinate molecole da parte delle cellule che li compongono, definite generalmente come marker tumorali.

Ad esempio, alcune neoplasie possono risultare assai scarsamente o solo parzialmente differenziate, per cui, anche con l’esame istologico di base, che prevede l’utilizzo della colorazione di routine ematossilina/eosina e talvolta di alcune colorazioni ‘speciali’ istochimiche (come il Blu di Toluidina o il Giemsa per rivelare la metacromasia delle granulazioni citoplasmatiche dei mastociti), può risultare impossibile effettuare una diagnosi morfologica esatta, ovvero dire con certezza di quale neoplasia si tratti.

Questo può accadere per alcune neoplasie maligne con elementi cellulari talmente immaturi, poco o quasi per nulla differenziati, da rendere impossibile determinarne l’origine tissutale solo sulla base dei loro caratteri morfologici e della loro disposizione.

In altri casi, pur riuscendo a definire in parte la natura del tessuto neoplastico, come ad esempio nel caso dei cosiddetti sarcomi dei tessuti molli, il patologo non può esprimersi con certezza assoluta sull’origine tissutale della neoplasia stessa in quanto nello spettro di tali entità ricadono neoplasie differenti, ma con aspetti morfologici in parte sovrapponibili. Nel caso dei sarcomi dei tessuti molli, appunto, risulta spesso difficile o impossibile determinare con certezza, solo sulla base dei loro caratteri morfologici, se l’origine sia ad esempio dalle guaine perivascolari o dalle guaine nervose periferiche.

Analogamente spesso anche le neoplasie rotondocellulari risultano non così ben differenziate, dal punto di vista morfologico, da consentirne una diagnosi certa con il solo esame istologico di base o ancora, nel caso di un disordine linfoproliferativo, il solo aspetto istologico delle lesioni può essere border-line tra una forma neoplastica, ovvero linfomatosa, ed una forma reattiva.

Per i linfomi, inoltre, l’immunoistochimica, consentendo di definire l’immunofenotipo neoplastico, fa parte del gold standard diagnostico che comprende esame citologico, esame istologico, definizione dell’immunofenotipo neoplastico B o T appunto mediante indagine immunoistochimica e valutazione della clonalità linfoide mediante PCR (PARR).

Ci sono inoltre anche casi in cui la valutazione, con indagini di immunoistochimica, dell’espressione di determinati marker, è utile per attribuire un maggiore valore prognostico al referto stesso.

Ad esempio, per i mastocitomi del cane, è possibile eseguire, ad integrazione del referto base, un’indagine immunoistochimica per C-Kit (CD117). Tale molecola è un recettore tirosin-chinasico che gioca un importante ruolo nelle neoplasie mastocitarie canine (così come in quelle umane). L’espressione immunoistochimica di questo marker è in condizioni normali è di tipo membranario, mentre viene considerata aberrante una sua localizzazione in sede citoplasmatica (a spot perinucleari o diffusa).

In altri casi esistono marker utili a valutare la frazione di crescita cellulare, come il Ki67, per cui sono stati determinati in letteratura scientifica dei valori di cut-off (espressi come percentuale di nuclei positivi) utili ai fini prognostici nel caso di determinate neoplasie, come quelle di origine melanocitaria o gli stessi mastocitomi nel cane.

Senza scendere ulteriormente nei dettagli esistono anche innumerevoli altri esempi di utilità diagnostica delle indagini di immunoistochimica.

Come già accennato è compito del patologo, a seconda di ciascun caso istologico, indicare al clinico se vi siano e quali siano le ulteriori opportunità di approfondimento diagnostico utili ai fini prognostici/terapeutici. Resta poi una libera scelta del medico veterinario, dietro consiglio del suo oncologo clinico di fiducia, avvalersi o meno di tali indagini supplementari, anche a seconda della volontà e della compliance dei proprietari degli animali relativa all’iter oncologico/terapeutico del caso.

Un ulteriore, ma non meno importante, campo di utilità diagnostica dell’immunoistochimica si ha, infine, nella diagnostica infettivistica. In alcuni casi, infatti, la molecola target può essere un antigene espresso da un agente patogeno, come ad esempio un Papillomavirus o il Feline Infectious Peritonitis Coronavirus (il virus della FIP). In tal caso mediante l’immunoistochimica è resa possibile la visualizzazione diretta sui tessuti, nonché la relativa esatta localizzazione negli stessi, di uno specifico antigene, indicativo della presenza del patogeno stesso.

Sperando che questo brevissimo approfondimento possa risultare utile a comprendere il motivo per cui, a volte, il patologo indica nel commento la possibilità di eseguire indagini di immunoistochimica su un caso istologico, ricordiamo che siamo sempre a disposizione dei clinici per spiegazioni e suggerimenti relativi ai loro esami.

 

Dr.ssa Gaia Vichi - DVM Dipl. ECVP


Campioni endoscopici dell'apparato gastroenterico

Parliamo oggi delle biopsie endoscopiche eseguite ai fini diagnostici in corso di patologie croniche del tratto gastroenterico nel cane e nel gatto.

Il campionamento bioptico per via endoscopica andrebbe solitamente eseguito in seguito ad un iter completo diagnostico volto a fornire dati clinici e di patologia clinica, nonché in seguito a trials terapeutici (es. con cambi di dieta mirati, integrazioni con prebiotici/probiotici etc…) e ad indagini di diagnostica per immagini.

Se alla fine di tale iter diagnostico non si riesce a giungere ad una conclusione diagnostica e si sospetta la presenza di una patologia infiltrativa o di una lesione focale a carico del tratto gastroenterico con interessamento mucosale vi sono i presupposti per un’indagine endoscopica con campionamento bioptico.

Il valore diagnostico dell’esame endoscopico, in questi casi, è dato dalla possibilità di visualizzare direttamente l’aspetto macroscopico dei tratti raggiungibili (esofago-stomaco-duodeno-colon ed in alcuni casi ileo), dalla possibilità di ottenere campioni multipli dallo stesso tratto, aumentando le chances diagnostiche anche per lesioni che possono avere una distribuzione irregolare a livello mucosale.

Ovviamente qualora le indagini di diagnostica per immagini abbiano evidenziato alterazioni stratigrafiche parietali in sede più profonda rispetto alla tonaca mucosa e al piano più superficiale della sottomucosa, oppure in sedi non raggiungibili mediante endoscopia (es. digiuno), è consigliabile il campionamento transmurale per via chirurgica (sebbene più invasivo dell’esame endoscopico).

Il prelievo bioptico per via endoscopica va eseguito in maniera tale da avere un numero sufficiente di campioni da esaminare, di profondità, dimensioni e qualità adeguate dal punto di vista diagnostico. Non ci soffermiamo su questo punto in quanto il clinico si avvarrà della collaborazione di endoscopisti esperti con conoscenze ed abilità tecniche tali da eseguire dei buoni campionamenti.

Dal punto di vista della “vita dei campioni” dal prelievo al conferimento al laboratorio ci sono invece alcuni punti degni di essere sottolineati per la loro importanza ai fini della successiva qualità ed esaustività diagnostica:

1 – I campioni dovrebbero essere estratti dalle pinze bioptiche con estrema delicatezza mediante l’ausilio di un ago ed immersi in un adeguato volume di fissativo e con la corretta concentrazione dello stesso (ad esempio in un volume di formalina tamponata al 10%, 9 volte maggiore al volume dei campioni) prima della loro possibile essiccazione, nel più breve tempo possibile, preferibilmente dopo essere stati deposti su un apposito supporto, come cartine per prelievi bioptici o spugnette da chiudere in biocassette di plastica (vedi figura 1)

2- I campioni, se posizionati su supporti come le cartine per prelievi bioptici, dovrebbero essere orientati in file parallele e minuziosamente allineati tra loro, con la parte più profonda appoggiata al supporto e la superficie verso l’alto (ed evitando un’eccessiva pressione in grado di danneggiare i campioni stessi). Le cartine, infatti, non creano problemi al taglio con microtomo solo se incluse nel blocchetto di paraffina perpendicolarmente rispetto alla superficie di taglio: quindi al taglio stesso tutti i campioni devono risultare perfettamente allineati per “affiorare” insieme sulla stessa sezione e disposti in maniera tale che la loro stratigrafia sia interamente osservabile sullo stesso piano di taglio (vedi figura 1 e figura 2)

3 – I campioni provenienti da tratti diversi dell’apparato gastroenterico non dovrebbero essere “mescolati” tra loro, ma ogni contenitore o biocassetta dovrebbe contenere campioni provenienti dallo stesso tratto e la sede di prelievo dovrebbe essere chiaramente indicata sul contenitore o sulla biocassetta, in quest’ultimo caso utilizzando una matita(per evitare che eventuali inchiostri possano dissolversi durante le successive fasi di processazione dei campioni stessi)

4 – Il materiale inviato al laboratorio dovrebbe essere accompagnato da un’adeguata scheda anamnestica con dati clinici, di patologia clinica, diagnostica per immagini, esito di eventuali trials terapeutici e dettagli endoscopici, se possibile anche assieme allo stesso referto endoscopico.

Figura 1: estrazione delicata con ago dei campioni dalla pinza bioptica e loro corretto posizionamento su apposito supporto (spugnetta o, come riportato nell’immagine cartina per prelievi bioptici). NB: come descritto nel riquadro in alto i campioni vanno appoggiati sul supporto con la loro parte più profonda, mentre la porzione più superficiale, corrispondente alla superficie mucosale, risulta rivolta verso l’alto.

Figura 2: durante l’inclusione in paraffina qualora siano state usate cartine apposite per deporre i campioni bioptici queste vengono orientate perpendicolarmente rispetto a quella che sarà la superficie di taglio al microtomo. Risulta pertanto di estrema importanza che le biopsie siano perfettamente allineate così da poter risultare presenti su un unico piano di taglio e che siano orientate correttamente secondo la stratigrafia tissutale (vedi figura 1).

 

Dr.ssa Gaia Vichi DVM, Dipl. ECVP