Poster della Dott.ssa Marta Attini
Prevalenza nella specie canina di esame colturale positivo con sedimento urinario inattivo

Le infezioni del tratto urinario sono un reperto comune nella specie canina e l’esame delle urine mediante esame microscopico del sedimento urinario è la metodica più facile, rapida ed economica per diagnosticarle. Il gold standard è l’esame colturale, un test più costoso, che può essere successivamente utilizzato per la selezione dell’antibiotico corretto mediante antibiogramma.
Lo scopo del lavoro di Strachan et al. è quello di valutare nella specie canina la prevalenza di esame colturale positivo in presenza di sedimento urinario inattivo. Inoltre, gli autori si prefiggono anche di valutare se la proteinuria e altri parametri dell’esame delle urine (ad esempio pH e peso specifico) e dati del segnalamento del paziente possano essere associati a una maggior frequenza di valori discrepanti tra esame colturale ed esame microscopico del sedimento urinario.
Sono stati inclusi nello studio retrospettivamente 1049 pazienti che avessero come criteri di inclusione:
- Segnalamento (razza, età, sesso).
- Esame delle urine (chimico – fisico ed analisi microscopica del sedimento) con sedimento inattivo; sono stati esclusi quindi tutti i campioni che presentassero piuria, ematuria e-o batteriuria.
- Esame colturale qualitativo e-o quantitativo.
36 su 1049 pazienti con sedimento inattivo sono risultati positivi all’esame colturale ovvero il 3.4%. Il patogeno più comunemente isolato è stato l’Escherichia coli, e a seguire il Proteus mirabilis, l’Enterococcus ed infine lo Staphilococcus pseudintermedius.
Non sono state identificate differenze statisticamente significative tra sessi ed età; la presenza di esame colturale positivo con concomitante sedimento inattivo non ha dimostrato alcuna relazione significativa con razza, grado di proteinuria, pH e peso specifico.
10 su 36 campioni positivi all’esame colturale hanno evidenziato una conta batterica superiore a 100.000 cfu/mL, mentre i restanti tra 4.000 e 75.000 cfu/uL. Purtroppo per la maggior parte dei campioni inclusi non era stata specificata la metodica di prelievo (n=17/36); la cistocentesi risulta essere il metodica più frequente utilizzata (n=13) e a seguire la minzione spontanea (n=6).
Gli autori segnalano come limiti del proprio lavoro:
- La natura retrospettiva della raccolta dei campioni non consente una standardizzazione nel metodo di prelievo delle urine (ragione per cui frequentemente questo dato era mancante); inoltre le ragioni cliniche per cui è stato eseguito l’esame delle urine, trattamenti farmacologici (antibiotici, cortisone) e comorbidità contestuali al momento del prelievo non erano note.
- I tempi per valutare l’esame colturale possono variare a seconda del tempo di crescita di un patogeno specifico; falsi negativi possono capitare se non rispettate le tempistiche necessarie.
In conclusione, basandosi sui dati raccolti nel presente lavoro, la prevalenza di esame colturale positivo di fronte a un sedimento urinario negativo nella specie canina è bassa; pertanto, prima di richiedere un esame colturale di fronte a un sedimento inattivo, valutare accuratamente la probabilità che il paziente possa comunque presentare un’infezione del tratto urinario, per evitare eventuali costi non necessari.
Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM – Dr.ssa Silvia Rossi, DVM dipl ECVCP
Bibliografia:
- Strachan NA, Hales EN, Fischer JR. Prevalence of positive urine culture in the presence of inactive urine sediment in 1049 urine samples from dogs. J Vet Intern Med. 2022;36(2):629-633. doi:10.1111/jvim.16378
Cause e fattori prognostici in corso di leucocitosi neutrofila estrema nella specie canina

Con il termine leucocitosi neutrofila estrema si indica, secondo alcuni testi, una leucocitosi superiore a 50.000 – 100.000 cellule/uL delle quali i granulociti neutrofili rappresentino almeno un numero superiore a 25.000 cellule/uL (Harvey JV, 2012); secondo altri testi i granulociti neutrofili devono essere superiori a 50.000 cellule/uL (Weiss, 2010).
Per i clinici, tale reperto ematologico può essere considerato una sfida diagnostica; la granulopoiesi può essere stimolata da diversi processi patologici, come infiammazione locale e sistemica, malattie infettive ed immunomediate, neoplasie, danno tissutale – necrosi, e una combinazione delle precedenti.
Il lavoro di Ziccardi et al. (2021) si pone come obiettivo quello di valutare retrospettivamente, nei 10 anni precedenti, le cause e i fattori prognostici in cani con leucocitosi neutrofila estrema, ponendo come criteri di inclusione una leucocitosi con neutrofilia matura (neutrofili segmentati) superiori a 50.000 cellule/uL e la raccolta di storia clinica e anamnesi completa. Mentre, i criteri di esclusione sono cani con diagnosi di leucemia mieloide acuta (AML) e cronica (CML), basate sulla diagnosi morfologica di blasti nel sangue periferico, e cani in terapia con granulochine.
I cani inclusi nello studio (n= 269) sono stati divisi nelle seguenti categorie in base alla loro diagnosi definitiva, ove possibile, raggiunta sia ante che post – mortem (sono inoltre riportate le corrispettive percentuali di prevalenza nella popolazione in esame, in ordine decrescente):
- Patologie infettive – infiammatorie: 29%. È considerata la prima causa, benché non si discosti molto dalla successiva, ovvero le patologie neoplastiche. Sono maggiormente rappresentate le malattie infettive, prevalentemente di origine batterica, che prese singolarmente rappresentano solo il 22% di tutte le infiammatorie – infettive, percentuale inferiore rispetto alle patologie di origine neoplastica: questo dato è in contrasto con la medicina umana in cui le patologie batteriche sono considerate la prima causa di leucocitosi neutrofila estrema.
- Patologie neoplastiche: 28%. Rappresentano la seconda cause per prevalenza. Alcuni dei soggetti inclusi in questa categoria, benché in numero ridotto, non hanno una diagnosi definitiva citologica o istologica di neoplasia, ma solamente il riscontro di masse mediante diagnostica per immagini: questo dato potrebbe essere leggermente falsato per una possibile mis-classificazione di patologie infettive localizzate come ascessi e granulomi (eziologia batterica e/o micotica).
- Patologie immunomediate: 14%
- Multifattoriale (più di una delle categorie elencate): 13%
- Necrosi – danno tissutale: 8%
- Senza diagnosi: 8%. Questa categoria non è stata inclusa nella statistica perché una CML (considerata uno dei criteri di esclusione) non poteva essere esclusa completamente in questi soggetti, in quanto spesso a tale diagnosi si giunge escludendo tutte le altre cause precedenti.
Di seguito, la tabella che riportata nel dettaglio le diverse patologie incluse nelle singole categorie.

Il valore medio di granulociti neutrofili segmentati è di 63.800 cellule/uL (min-max: 54.7-74.2). La presenza di granulociti neutrofili a banda (left shift) è frequente ma di lieve entità (valore medio 1.900 cellule /uL), mentre la tossicità, valutata da diversi patologi clinici board – certified, era per lo più assente (65%) o di lieve entità (28%).
Il tasso di mortalità risulta essere elevato (41%) e il più delle volte in seguito ad eutanasia (77%).
Per quanto riguarda i tempi di ospedalizzazione, il tempo medio è di 3.2 giorni; più i tempi sono lunghi, più il tasso di sopravvivenza è maggiore. Cani con patologie neoplastiche hanno tempi di ospedalizzazione più corti rispetto a quelli con patologie infiammatorie – infettive, e nello stesso tempo, hanno anche un tasso di mortalità superiore rispetto a quelli con patologie immunomediate e correlate a danno tissutale.
Sorprendentemente, la febbre è riportata solo nel 25% dei casi e non è associata a una particolare categoria.
Tra le differenti categorie, non sono state evidenziate differenze statisticamente significative nel numero totale di leucociti, dei granulociti neutrofili segmentati, a banda e nel grado di tossicità: questo dato è in contrasto con quanto riportato in medicina umana. Una debole ma significativa differenza è stata riscontrata solamente per quanto riguarda il numero di granulociti neutrofili segmentati e il tasso di sopravvivenza.
Gli Autori evidenziano i seguenti limiti del lavoro:
- Mancanza di una distribuzione omogenea dei casi da un punto di vista geografico, e questo vale soprattutto per quanto riguarda le malattie infettive. Ad esempio, l’Hepatozoon americanum, che è riportato dare frequentemente leucocitosi neutrofila estrema (Gaunt et al., 1983), è un patogeno che si localizza in particolari aree geografiche; le percentuali di prevalenza potrebbero essere quindi differenti a seconda dell’area geografica in cui i dati vengono raccolti.
- La natura retrospettiva del lavoro e la mancata standardizzazione, sia nell’utilizzo delle stesse contaglobuli per la lettura dell’esame emocromocitometrico di tutti i pazienti inclusi nello studio, sia nella valutazione dello striscio ematico in quanto non eseguito da un singolo operatore; la valutazione dei granulociti neutrofili a banda e dei segni di tossicità potrebbero essere influenzate da un certo grado di soggettività.
- La presenza della categoria “senza diagnosi” non inclusa nella statistica è di dubbia interpretazione. La CML, benché esclusa in quanto è quasi impossibile giungere a una diagnosi certa di tale disordine mieloproliferativo, potrebbe essere stata arruolata all’interno di questa categoria.
In conclusione, questo articolo dimostra che la leucocitosi neutrofila estrema è un reperto infrequente, ma associato a un tasso di mortalità importante (41%). Le cause più frequenti associate a tale reperto ematologico sono malattie su base infettiva – infiammatoria, benché quelle batteriche prese singolarmente siano meno frequenti di quelle neoplastiche; queste ultime si classificano al secondo posto per prevalenza. La presenza di left shift e di segni di tossicità non è associata a una prognosi peggiore, mentre una prognosi migliore è associata a patologie immunomediate, da trauma tissutale e a un tempo di ospedalizzazione superiore.
Dr. Silvia Rossi DVM, dipl ECVCP – Dr. Giulia Mangiagalli, DVM
Bibliografia:
- Gaunt et al. Extreme neutrophilic leukocytosis in a dog with hepatozoonosis. J Am Vet Med Assoc. 1983 Feb 15;182(4):409-10.
- Harvey JV Veterinary Hematology, a Diagnostic Guide and Color Atlas. First Edition, 2012
- Weiss DJ, Wardrop KJ. Schalm’s Veterinary Hematology. Sixth edition. 2010
- Ziccardi et al. Etiology and outcome of extreme neutrophilic leukocytosis: A multi-institutional retrospective study of 269 dogs. J Vet Intern Med. 2021;1–8.
Valutazione diagnostica del rapporto urea/creatinina in cani con sanguinamento gastrointestinale
Il rapporto urea/creatinina (UCR) non sembra essere utile per la diagnosi di sanguinamento gastrointestinale occulto, né per distinguere sanguinamenti del primo tratto gastroenterico da sanguinamenti del grosso intestino.
Il sanguinamento gastrointestinale del cane è frequentemente causa di ospedalizzazione. Clinicamente si può presentare come malattia subclinica senza sanguinamento evidente (forma occulta) oppure con ematemesi, melena o ematochezia (forma conclamata). Si distingue inoltre, a seconda della localizzazione del sanguinamento, in emorragia superiore o inferiore alla giunzione duodenodigiunale.
In letteratura è riportato che cani con sanguinamento evidente del tratto gastrointestinale hanno un UCR più alto rispetto a cani sani. Si ritiene che tale incremento sia causato principalmente da un aumento dell’urea sierica, e ciò avverrebbe a causa dell’aumento dell’ureagenesi epatica in seguito alla digestione delle proteine plasmatiche nel tratto gastrointestinale. Questa ipotesi è supportata da studi sperimentali in cui si osserva un incremento dell’urea sierica in seguito a somministrazione orale di sangue. Una seconda ipotesi patogenetica propone come causa di aumento dell’urea sierica nei cani con sanguinamento gastrointestinale l’ipovolemia conseguente all’emorragia, che determinerebbe azotemia pre-renale precoce (cioè senza concomitante incremento della creatinina sierica).
Lo scopo di questo studio è quello di valutare l’utilità della UCR nel diagnosticare sanguinamento gastrointestinale occulto e nel distinguere sanguinamenti del primo tratto gastroenterico da sanguinamenti del grosso intestino.
Nello studio sono stati inclusi in modo retrospettivo e prospettico cani che presentavano sintomi gastroenterici o anemia da causa non nota, e cani sani.
Sono stati esclusi i pazienti che presentavano rialzo dell’urea e concomitante shock, disidratazione ed emoconcetrazione, azotemia renale o post-renale, disfunzione epatica o febbre.
Su tutti i pazienti è stata quindi eseguita endoscopia tramite la quale sono state individuate le lesioni che causavano il sanguinamento; per alcuni pazienti la diagnosi è stata confermata anche tramite Video Capsule Endoscopy (VCE), laparotomia esplorativa o necroscopia.
La maggior parte (76,9%) dei cani con lesioni nel grosso intestino presentava sanguinamento clinicamente evidente, mentre circa la metà (54,9%) dei cani con lesioni nel primo tratto aveva la forma occulta.

I risultati dello studio indicano che la UCR dei cani con sanguinamento gastrointestinale occulto non è statisticamente differente da quella dei cani sani. Una possibile spiegazione è che il sanguinamento occulto è caratterizzato da perdita microscopica di sangue, per cui la quantità di proteine plasmatiche che viene assorbita può essere insufficiente a determinare un aumento dell’ureagenesi epatica. In alternativa, la perdita microscopica di sangue potrebbe non determinare un’ipovolemia tale da causare azotemia pre-renale.
L’urea è risultata essere significativamente più bassa nei cani con sanguinamento occulto rispetto ai cani con la forma conclamata e ai cani sani. Gli autori hanno postulato che cani con urea <12 mg/dL e segni clinici compatibili hanno più probabilità di avere una forma occulta di sanguinamento gastroenterico rispetto a cani con urea compresa fra 12 e 21,5 mg/dL. Gli autori ipotizzano che l’iporessia/anoressia conseguenti alla malattia possano determinare una diminuzione delle proteine normalmente introdotte con la dieta, e portare quindi a una diminuzione dell’urea che maschererebbe un possibile aumento della stessa causato dal sanguinamento.
La creatinina è significativamente più bassa nei pazienti con sanguinamento gastrointestinale sia conclamato che occulto rispetto ai cani sani. Gli autori ipotizzano che la causa possa essere il dimagrimento e la perdita di massa muscolare conseguenti alla malattia.
UCR nei cani con malattia conclamata è più alto sia rispetto ai sani che rispetto ai cani con la forma occulta. Non è invece utile nel distinguere la localizzazione del sanguinamento.
Gli autori hanno riscontrato inoltre che valori di Hb e di Hct più bassi del range di normalità sono associati alla possibilità di avere una forma occulta. Analogamente a UCR, non sono invece utili a differenziare la localizzazione del sanguinamento.
CONCLUSIONI
Il rapporto urea/creatinina sierica non è utile per predire il sanguinamento gastrointestinale occulto e non ha la capacità di localizzare l’emorragia nel tratto gastrointestinale. Quindi un aumento di UCR in un cane senza segni evidenti di sanguinamento gastrointestinale, soprattutto se l’Hct è tra i valori medi o al limite superiore dell’intervallo di riferimento, non è associato alla possibile presenza di sanguinamento occulto.
Dr.ssa Silvia Rossi, DVM Dipl.ECVCP – Dr.ssa Manuela Zanetti, DVM
Bibliografia:
Stiller et al. Diagnostic evaluation of urea nitrogen/creatinine ratio in dogs with gastrointestinal bleeding. J Vet Intern Med. 2021;35:1427–1438.
Iperlipasemia in cani ricoverati in Terapia Intensiva con o senza pancreatite acuta

In medicina umana, è riportato che pazienti ricoverati in terapia intensiva possano presentare valori di lipasi elevati (circa il 14-80% di cui solo il 35% con segni di pancreatite acuta). Alcuni pazienti possono sviluppare pancreatite secondariamente a trattamenti farmacologici, sepsi, ischemia, e altri invece, pur avendo iperlipasemia, non presentano segni clinici o di diagnostica per immagini riconducibili a tale patologia.
In veterinaria la diagnosi di pancreatite acuta è complessa ed è in genere presuntiva, poiché quasi mai viene confermata attraverso l’esame istologico. Vengono considerati insieme dati clinici e anamnestici, reperti di diagnostica per immagini ed esami di laboratorio. Tra questi ultimi rivestono particolare importanza la misurazione della Lipasi pancreatica specifica canina (cPL) e la Lipasi misurata con metodo DGGR, che ha dimostrato un ottimo agreement con il cPL (Kook et al., 2014), oltre che a essere una metodica più economica e accessibile a tutti. Tuttavia, nessuno di questi due test ha elevata accuratezza o può essere utilizzato come singolo test per la diagnosi di pancreatite acuta.
Le ipotesi che gli Autori del lavoro vogliono dimostrare sono: verificare se come nell’uomo anche nei pazienti critici canini è frequente l’iperlipasemia (misurata mediante lipasi DGGR) in assenza di pancreatite, secondaria ad altre cause; valutare se c’è una correlazione tra valori elevati di lipasi e l’outcome, inteso come mortalità e durata dell’ospedalizzazione.
Sono stati selezionati retrospettivamente 1360 cani definiti come pazienti critici e che avessero almeno 1 misurazione della lipasi nelle 24 ore precedenti al ricovero. Questi sono stati suddivisi in:
- Cani con iperlipasemia > 324* UI/L misurata entro 24 ore dal ricovero (N= 216): rappresentano circa il 16% dei casi inclusi nello studio, di cui solo un terzo aveva segni clinici e ecografici di pancreatite acuta;
- Cani con lipasemia < 324* UI/L misurata entro 24 ore dal ricovero (N= 1144); di questi 843 (62%) avevano lipasemia normale e 301 (22%) iperlipasemia ma < 324 UI/L.
*Il cut-off di 324 UI/L scelto corrisponde a 3 volte il valore superiore dell’intervallo di riferimento e viene utilizzato come aumento significativo e suggestivo di possibile pancreatite.
Di questi, i pazienti che durante il ricovero hanno avuto più misurazioni seriali della lipasi (n=345) sono stati divisi in altri due gruppi:
- Pazienti con incremento non significativo durante il ricovero (ovvero < a 2 volte il valore al ricovero o < a 3 volte il valore superiore dell’intervallo di normalità) ;
- Pazienti con incremento significativo durante il ricovero (ovvero > a 2 volte il valore al ricovero o > a 3 volte il valore superiore dell’intervallo di normalità).
La diagnosi di pancreatite acuta è stata stabilita in 95 cani (7% di tutti i soggetti inclusi) da specialisti (internisti o intensivisti) valutando tutti i dati a disposizione (anamnesi, clinica, esami di laboratorio, diagnostica per immagini) ed è stata differenziata in primaria se presente al momento del ricovero e come motivo principale dello stesso, oppure secondaria, insorta a causa di un’altra patologia.
Di questi 95, 70 erano nel gruppo con lipasi > 324 UI/L mentre i restanti 25 hanno avuto una diagnosi di pancreatite pur avendo una lipasi < 324 UI/L. Di conseguenza dei 216 cani che presentavano lipasemia > 324 UI/L, 146 pazienti avevano la lipasi marcatamente aumentata in assenza di segni e sintomi di riconducibili a pancreatite.
Il 23% dei soggetti ha evidenziato un aumento significativo dei valori di lipasi durante il ricovero ( > 324 UI/L) ed è stato ricondotto a infiammazione sistemica, insufficienza multiorganica e ipoperfusione, così come avviene nell’uomo.
La probabilità di mortalità (mortality likelihood ratio) si è rivelata maggiore (1.53) nei pazienti con iperlipasemia marcata al ricovero (> 324 UI/L) rispetto a quella nei pazienti con lipasi normale o < 324 UI/L (0.91). Anche la durata del ricovero è risultata maggiore nel primo gruppo.
In questo studio le condizioni più comuni di aumento della lipasi DGGR sia all’ammissione che nel corso dell’ospedalizzazione, in pazienti che non hanno avuto una diagnosi di pancreatite sono state:
- Patologie renali: non vi è una correlazione significativa tra i valori di lipasi e creatinina ma si pensa che l’iperlipasemia possa essere data in parte dalla riduzione della GFR e in parte da una riduzione di meccanismi di riassorbimento tubulare e inattivazione enzimatica che avviene a livello renale; in particolare sono stati osservati marcati aumenti di lipasi in pazienti sottoposti ad emodialisi, ma in questo caso l’ipotesi formulata dagli Autori è che l’emodialisi stessa possa provocare dei danni pancreatici subclinici, come dimostrato nell’uomo;
- Endocrinopatie: la causa più comune è il diabete mellito in cui la pancreatite acuta è spesso considerata una comorbidità: nello studio di Bolton et al. (2016) si è visto che il 73% dei cani con chetoacidosi diabetica avevano valori elevati di lipasemia. Inoltre, questo incremento è riportato in corso di iperadrenocroticismo e ipotiroidismo: come possibile spiegazione troviamo una combinazione tra iperlipidemia, riduzione della sensibilità all’insulina e aumento delle citochine proinfiammatorie;
- Disordini immunomediati: l’iperlipasemia potrebbe essere sia secondaria al trattamento a base di corticosteroidi, sia alla patologia stessa e alla flogosi ad essa associata;
- Ostruzione delle vie prime respiratorie: nello studio è presente un numero elevato di Bouledogue Francesi in cui è riportata una comorbidità tra sindrome brachicefalica e alterazioni dell’apparato gastroenterico prossimale; in questi pazienti non è stato comunque possibile escludere una pancreatite sub- clinica mediante diagnostica per immagini.
- Trattamenti con glucocorticoidi nei giorni precedenti al ricovero o durante il ricovero
La fragilità maggiore di questo lavoro è indubbiamente la mancanza di una diagnosi certa di pancreatite, poiché di fatto è stata fatta una diagnosi presuntiva e non definitiva che andrebbe supportata utilizzando l’istopatologia. Per questa ragione alcuni dei pazienti con iperlipasemia anche marcata potrebbero aver avuto una pancreatite anche in assenza di segni e sintomi specifici. Resta il fatto che molti dei cani con marcato aumento della lipasi avevano come causa sottostante non una pancreatite ma un’altra patologia; questo elevato numero di casi di iperlipasemia non correlata a pancreatite rende questo test poco specifico per la diagnosi di pancreatite.
Preso come singolo parametro, indipendentemente dal fatto che sia causata da pancreatite o da altro, l’iperlipasemia marcata è correlata a un ricovero più prolungato e un tasso di mortalità più elevato; infine gli Autori ipotizzano un ruolo della lipasi come marker di insufficienza multiorgano o ischemia.
Dr.ssa Silvia Rossi, DVM Dipl. ECVCP – Dr.ssa Giulia Mangiagalli, DVM
Bibliografia:
- Prümmer et al. Hyperlipasemia in critically ill dogs with and without acute pancreatitis: Prevalence, underlying diseases, predictors, and outcome. J Vet Intern Med. 2020;1–11.
- Kook et al. Agreement of Serum Spec cPL with the 1,2-o-Dilauryl-Rac-Glycero Glutaric Acid-(6′-methylresorufin) Ester (DGGR) Lipase Assay and with Pancreatic Ultrasonography in Dogs with Suspected Pancreatitis. J Vet Intern Med 2014;28:863–870
- Bolton et al. Pancreatic lipase immunoreactivity in serum of dogs with diabetic ketoacidosis. J Vet Intern Med. 2016;30:958-963.
Esame citofluorimetrico delle masse mediastiniche nel gatto: studio retrospettivo

Le masse mediastiniche in cani e gatti vengono spesso esaminate tramite citologia ma la discriminazione tra due lesioni più comuni quali linfoma e timoma può essere complessa se non impossibile, soprattutto quando i piccoli e medi linfociti rappresentano la popolazione prevalente, caratteristica questa condivisa da entrambe le patologie (Pintore et al, 2014). Diagnosticare con accuratezza una massa mediastinica è importante poiché diverse patologie prevedono approcci terapeutici completamente differenti (asportazione chirurgica o radioterapia in caso di timoma, chemioterapia in caso di linfoma, ad esempio). Nella specie canina la citometria a flusso si è dimostrata in grado di identificare un timoma con elevata specificità (100%) quando è presente in misura maggiore del 10% una popolazione linfocitaria con doppia positività CD4+ e CD8+ (Lana et al 2006). Lo scopo del presente studio è stato quello di valutare l’utilizzo della citometria a flusso (FC) nella diagnosi di masse mediastiniche nel gatto, descriverne gli aspetti citometrici e la capacità di questa tecnica di differenziare linfomi da lesioni non linfomatose (timomi e non timomi).
I casi inclusi nello studio sono stati raggruppati in due gruppi “linfoma” e “non-linfoma” basandosi sui risultati di istologia, citologia, PARR (PCR for antigen receptor rearrangement), presentazione clinica e follow-up. I parametri di “scatter”, le positività a CD5, CD4, CD8, CD21, CD18 e le loro co-espressioni sono state analizzate utilizzando un approccio multicolore. Sono stati selezionati 20 gatti, 12 con linfoma e 8 casi non linfomatosi.
È stato riscontrato un forward scatter (FSC) più alto nel gruppo “linfoma”; le cellule T con doppia positività CD4 e CD8 si sono rivelate la popolazione dominante in 8 linfomi su 12, mentre le lesioni non linfomatose non hanno mostrato una popolazione dominante in 5 casi su 8. A differenza dei cani, l’elevata prevalenza di linfomi con doppia positività CD4+ e CD8+ nei gatti rende difficile differenziare il linfoma dalle lesioni non linfomatose utilizzando la sola citometria a flusso (FC). I risultati del presente lavoro mostrano quindi che la citometria a flusso (FC) può aggiungere informazioni utili per affinare la diagnosi in alcuni casi. Depongono a favore della diagnosi di linfoma i seguenti reperti di citometria:
1. Dimensioni elevate dei linfociti (determinabili più accuratamente in citometria che in citologia)
2. Presenza di una popolazione linfocitaria dominante oltre a una popolazione CD4+/ CD8+, presenza di fenotipi aberranti.
Supporta invece la diagnosi di una lesione non linfomatosa la presenza di una popolazione mista di linfociti T composta di CD4+, CD8+, CD4+/CD8+, CD4-/CD8- .
PARR e istopatologia rimangono tecniche necessarie per risolvere la diagnosi differenziale in caso di espansione di cellule linfoidi di piccole/medie dimensioni con doppia positività CD4 e CD8.
Dr. Stefano Perfetto, Responsabile laboratorio di Biologia molecolare e Microbiologia clinica
Bibliografia:
- Bernardi et al. Flow Cytometric Analysis of Mediastinal Masses in Cats: A Retrospective Study. Frontiers in Veterinary Science. 2020, 444
- Pintore L et al. Cytological and histological correlation in diagnosing feline and canine mediastinal masses. J Small Anim Pract. (2014) 55:28–32.
- Lana S et al. Plaza S, Hampe K, Burnett R, Avery AC. Diagnosis of mediastinal masses in dogs by flow cytometry. J Vet Intern Med. (2006) 20:1161–5.
Esame citologico del fegato: come e quando?

L’esame citologico del materiale ottenuto dal sistema epato- biliare è sempre più spesso utilizzato come complemento ad altre procedure diagnostiche (esame clinico, esami ematobiochimici, ecografia addominale, tomografia computerizzata) ed in alcuni casi può fornirci la diagnosi definitiva. Le tecniche più utilizzate per il prelievo citologico di parenchima o di neoformazioni epatiche sono l’ago infissione e l’agoaspirazione percutanee. Si tratta di un esame poco invasivo, economico e se il paziente è collaborativo non necessita di alcuna anestesia; le indicazioni per effettuarlo sono:
- epatomegalia
- alterazioni di ecogenicità
- presenza di neoformazioni
- stadiazioni di neoplasie
- alterazioni cliniche o clinico patologiche che indicano una patologia epatica anche in assenza di alterazioni ecografiche
La principale controindicazione invece per l’esecuzione di un FNA del fegato è un’alterata emostasi, con conseguente possibile emorragia; in caso di piastrinopenia molto grave è sconsigliabile effettuarlo e nel caso si sospetti uno stato di ipocoagulabilità (evento non raro in corso di epatopatia) è consigliabile effettuare un profilo coagulativo prima di procedere. Vi sono comunque delle limitazioni, ben note in letteratura: in primo luogo la citologia non permette di valutare l’architettura del tessuto coinvolto da patologia (per questo l’esame istologico rimane il gold standard) ed in secondo luogo è stato dimostrato che la citologia come ausilio diagnostico per lesioni epatiche ha una accuratezza diagnostica inferiore rispetto all’esame citologico di altri organi coinvolti da processi infiammatori/neoplastici. La citologia ha dimostrato di essere più efficace nella diagnosi di degenerazione vacuolare/glicogenosi epatica diffusa o di patologia neoplastica rispetto a patologie infiammatorie (sensibilità variabile). Nello studio di Fleming KL et al. (2019) sono state confrontate le due diverse metodiche di prelievo citologico ago infissione (FN-NA) ed ago aspirazione (FNA) del parenchima epatico di cani di sesso, razza ed età diversi che necessitavano un esame ecografico e una citologia eco-guidata come completamento del loro iter diagnostico (sono stati esclusi dallo studio cani con marcata trombocitopenia o coagulopatie di varia natura). I patologi clinici hanno valutato cellularità, conservazione delle cellule ed emodiluizione dei diversi campioni nell’ottica di stabilire se e quale possa essere la tecnica più indicata per ottenere un buon preparato citologico. Circa il 90% dei campioni citologici ottenuti è risultato adeguato per una corretta diagnosi, con una maggior prevalenza di campioni diagnostici mediante la tecnica di ago infissione (FN-NA) (94%) rispetto a quella per ago aspirazione (FNA) (81,5%). Questa seppur lieve differenza è dovuta al fatto che l’FNA può determinare la rottura delle cellule e una maggior emodiluizione, compromettendo conseguentemente la qualità diagnostica del preparato citologico (soprattutto in tessuti molto vascolarizzati come il fegato). L’aspirazione esercitata infatti può traumatizzare le cellule causandone la rottura (soprattutto nelle neoplasie dove le cellule sono più fragili e più soggette a degenerazione). E’ interessante citare inoltre un altro articolo di LeBlanc et al. (2009) dove hanno comparato le due metodiche di prelievo di campioni citologici di parenchima splenico di cani e gatti e dove, anche in questo caso, l’FN-NA è risultato più idoneo per ottenere preparati di ottima qualità.
Bibliografia:
- Fleming KL, Howells EJ, Villiers EJ, Maddox TW. A randomized controlled comparison of aspiration and non-aspiration fine-needle techniques for obtaining ultrasound-guided cytological samples from canine livers. The Veterinary Journal 252: DOI : 1016/j.tvjl.2019.105372, 2019.
- Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH, DeNicola DB. Diagnostic cytology and hematology of the dog and cat. 3°edizione Mosby Elsevier, St.Louis, Missouri. Pp. 312-330, 2008
- Raskin RE, Meyer DJ. Canine and feline cytology – A Color Atlas and Interpretation Guide. 2°edizione Elsevier Saunders, St.Louis, Missouri. Pp. 226-248, 2010
- LeBlanc CJ, Head LL, Fry MM. Comparison of aspiration and nonaspiration techniques for obtaining cytologic samples from the canine and feline spleen. Veterinary Clinical Pathology 38: 242-246, 2009.
Vitamina B12 e Folati: valore prognostico in corso di insufficienza pancreatica esocrina nel cane

L’insufficienza pancreatica esocrina (EPI) consiste in una inadeguata secrezione da parte del pancreas esocrino di enzimi pancreatici (tra cui lipasi, amilasi, tripsinogeno, chimotripsinogeno, carbossipeptidasi) e che portano a un’incompleta digestione dell’alimento e di conseguenza a un’inadeguata assunzione di nutrienti da parte del tratto digerente. Clinicamente, i cani affetti da questa patologia presentano perdita di peso con appetito conservato e feci poco formate.
Le cause dell’EPI possono essere:
- l’atrofia degli acini del pancreas esocrino (ereditario, segnalato nei pastori tedeschi) causata da una distruzione linfocitica
- una pancreatite cronica, idiopatica, che porta a una progressiva distruzione degli acini
- un’ostruzione del dotto pancreatico che impedisce il rilascio degli enzimi pancreatici a livello intestinale
La diagnosi di EPI si effettua misurando il TLI (Trypsin Like Immunoreactivity): valori inferiori a 2.5 ug/L sono considerati diagnostici. I soggetti affetti da EPI sviluppano secondariamente alterazioni dell’apparato gastroenterico; la mancanza di enzimi pancreatici causa una riduzione della produzione di fattore intrinseco causando a sua volta un deficit nell’assorbimento di vitamina B12 a livello di ileo. Inoltre, la disbiosi intestinale è un reperto frequente.
Lo scopo di questo studio è di valutare i tempi di sopravvivenza dal momento della diagnosi utilizzando la vitamina B12 e i folati come fattori prognostici; nel primo caso è già noto in letteratura che valori di vitamina B12 < 350 ng/L al momento della diagnosi corrispondano a un fattore prognostico negativo (Batchelor et al. 2007).
Sono stati inseriti nello studio 229 cani con diagnosi di EPI e follow up noto (tempi di sopravvivenza tra 0.5 e 7.3 anni (media 4.4 anni)) e al momento della diagnosi nessuno prendeva integrazione enterale o parenterale di vitamina B12. Le razze maggiormente rappresentate sono pastori tedeschi, CKCS e rough coated collie.
Al momento della diagnosi:
- La vitamina B12 era < 350 ng/L nel 55% dei soggetti (soprattutto soggetti anziani)
- La vitamina B12 era > 850 ng/L nel 5% dei soggetti
- I folati erano > 12 ug/L nel 67% dei soggetti
- La vitamina B12 era < 350 ng/L e contemporaneamente i folati erano > 12 ug/L nel 34% dei soggetti
Dallo studio statistico si è evinto che:
- Avere una concentrazione di vitamina B12 < 350 ng/L al momento della diagnosi rappresenta un fattore prognostico negativo.
- Avere una concentrazione di folati > 12 ug/L è un fattore prognostico positivo, probabilmente poiché oltre a identificare la presenza di disbiosi, testimonia che la capacità di assorbimento intestinale è ancora integra
- Pazienti con ipocobalaminemia (B12 < 350 ng/L) e iperfolatemia (folati > 12 ug/L) associate hanno una prognosi migliore dei pazienti che presentano soltanto ipocobalaminemia.
Inoltre, altri fattori che possono ridurre i tempi di sopravvivenza sono il mancato supplemento di enzimi pancreatici e l’inappetenza al momento della diagnosi.
Bibliografia:
- Soetart N. et al. Serum cobalamin and folate as prognostic factors in canine exocrine pancreatic insufficiency: An observational cohort study of 299 dogs. Vet Journal. Jan; 243:15-20. 2019
- Batchelor et al. Prognostic factors in canine exocrine pancreatic insufficiency: prolonged survival is likely if clinical remission is achieved. J. Vet. Intern. Med. 21, 54–60. 2007.
- Stockham S. Fundamentals of Veterinary Clinical Pathology. Second Edition. 2008
Variabilità del peso specifico urinario in cani sani

L’esame delle urine è un test fondamentale per inquadrare un paziente da un punto di vista clinico-patologico, assieme agli esami ematobiochimici.
Il peso specifico urinario (PS) serve a valutare la capacità di concentrare le urine da parte dei tubuli renali e per valutare lo stato di idratazione di un soggetto.
In letteratura, è riportato che il PS può fluttuare nel corso della giornata e che può variare ad esempio in base alla quantità e qualità di cibo e alla quantità di acqua assunti; in genere si consiglia di raccogliere le prime urine del mattino poiché si presume siano quelle che riflettano meglio la capacità di concentrare le urine.
L’interpretazione di un singolo risultato di PS può non essere sempre facile per il fatto che non è possibile sapere se il valore ottenuto sia da considerarsi patologico oppure semplicemente un valore “estremo” della fisiologica variabilità biologica di un singolo individuo.
Lo scopo di questo studio è quello di valutare la variabilità del PS delle prime urine del mattino di 103 cani clinicamente sani che non siano stati sottoposti a trattamenti farmacologici e non siano stati malati nei sei mesi precedenti. I proprietari sono stati incaricati di raccogliere le urine per caduta per tre giorni consecutivi, per due settimane consecutive (totale 6 campioni dello stesso paziente).
I risultati di questo studio dimostrano che la differenza media tra il valore più basso e il valore più alto di PS nello stesso individuo nell’arco delle due settimane è di 0.015; ciò significa che lo stesso soggetto può avere, in media, una mattina 1030 e la mattina successiva 1015. Si tratta di una differenzia media, per cui sono previste differenze sia minori che maggiori di questo valore.
I limiti di questo studio sono che son state analizzate urine di soggetti clinicamente sani ma non valutati da un punto di vista clinico-patologico (non hanno effettuato altri esami di laboratorio) e quindi non si ha la certezza di aver escluso patologie occulte soprattutto nei soggetti più anziani; inoltre non sono state indagate urine di soggetti con poliuria e polidipsia per valutare se questa stessa variabilità può essere valida anche all’interno di un quadro patologico.
Questa importante variabilità individuale deve essere tenuta in considerazione quando si interpreta un singolo valore di PS prima di attribuire ad esso un significato di normalità oppure patologico. Valutare nell’insieme più valori ottenuti da diversi campioni può essere di aiuto al clinico per meglio inquadrare il paziente e decidere di conseguenza di intraprendere iter diagnostici e terapeutici.
RudinskyA. et al. Variability of first morning urine specific gravity in 103 healthy dogs. J Vet Intern Med. Sep;33(5):2133-2137, 2019
ACTH endogeno: monitoraggio terapeutico nei pazienti addisoniani
L’ipoadrenocorticismo spontaneo primario (Morbo di Addison) è una patologia endocrina su base immunomediata che richiede una terapia di mantenimento con mineralcorticoidi e glucocorticoidi a vita. Nel trattamento del morbo di Addison il principale glucocorticoide utilizzato è il prednisolone, ma in letteratura non sono riportate chiare linee guida riguardo al dosaggio nella fase di mantenimento del paziente e le eventuali variazioni di posologia sono generalmente basate solo su rilievi clinici (solitamente per evitare un possibile Cushing iatrogeno).
In questo interessante articolo che vi proponiamo, è stata introdotta la MISURAZIONE DELL’ACTH ENDOGENO (eACTH) nel controllo della terapia in cani affetti da Morbo di Addison per cercare di determinare la dose finale di prednisolone il più possibile simile alle concentrazioni fisiologiche. I pazienti inclusi nel gruppo di studio sono statti trattati con prednisolone (dosaggio iniziale 0,2 mg/kg BID) in associazione a fludrocortisone (dosaggio iniziale 0,01 mg/kg BID).
Lo studio retrospettivo di Zeugswetter e Haninger ha dimostrato che l’introduzione della misurazione della concentrazione di eACTH può aiutare ad ottimizzare la terapia steroidea nei pazienti affetti da morbo di Addison, con lo scopo di arrivare alla dose più bassa possibile comunque in grado di evitare la ricomparsa dei segni – sintomi di Addison.
Al momento della diagnosi tutti i pazienti hanno eACTH molto elevato; al momento delle dimissioni, avendo cominciato la terapia con prednisolone tutti i pazienti presentano invece eACTH completamente soppresso, al punto da non essere misurabile.
La misurazione dell’eACTH nei successivi monitoraggi viene suggerito poiché:
- un valore di eACTH al di sotto del limite di rilevabilità (non misurabile) esclude con elevata probabilità un sottodosaggio;
- il dosaggio di prednisolone può essere aggiustato fino a quando scompaiono eventuali sintomi di un sovradosaggio (Cushing iatrogeno) e quando il valore di eACTH supera il limite di rilevabilità, quindi risulta essere misurabile.
Tuttavia, il principale limite nell’utilizzare l’eACTH come marker per il controllo della terapia nei pazienti Addisoniani è la sua estrema instabilità: anche se conservato refrigerato degrada rapidamente entro 24 ore dal prelievo (falsi decrementi).
Per la misurazione dell’eACTH è necessario raccogliere il sangue in provette con EDTA, centrifugare immediatamente, separare il plasma in una provetta vuota e congelarlo. Nel caso in cui il campione così congelato riesca a giungere in laboratorio entro poche ore è sufficiente spedirlo refrigerato (con siberino o apposito imballaggio da richiedere in laboratorio). Nel caso in cui invece il campione debba viaggiare con corriere nazionale, deve esserne garantito il congelamento per l’intera durata del viaggio.
Sul nostro sito trovate tutte le informazioni per eseguire correttamente il prelievo a questo link.
Zeugswetter FK and Haninger T. Prednisolone dosages in Addisonian dogs after integration of ACTH measurement into treatment surveillance. Tierarztl Prax Ausg K Kleintiere Heimtiere 46(2): 90-96, 2018